Una nonna cammina verso la scuola. Tiene per mano due bambini.

Uno è un maschio, fa parte dei 67 alunni entrati in prima quest’anno. L’altra è femmina.

Forse non ha nemmeno tre anni.

Sono piccoli e lei pure lo è un po’ , ma sembra solida tra quelle mani che la stringono. Ha un caschetto bianco e un corpo morbido. Un maglione blu di cotone e una gonna di jeans. Almeno mi sembra di ricordare.

Passo vicino a loro e le dico accarezzando la testa del “mio” bambino: “Fortunata questa nonna!”.

“Fortunata e consapevole” mi risponde lei.

Noto che non ha la borsa. Non si porta dietro niente di indispensabile se non quelle mani tra le sue.

La ritrovo dopo poco sotto la scuola. Ci allunga il grande: “Posso lasciarvelo?”.

“Certo” le diciamo prendendo la mano di quello che per noi è un piccolo.

La nonna ce lo cede senza difficoltà. E  facendo l’occhiolino alla nipotina aggiunge: “Bene, così noi due andiamo a fare la colazione a Spianata”. Crea alleanza con quella piccolina, come a dire, finalmente sole. Finalmente noi femmine.

Non so niente di lei. Non la conosco. Ma la guardo salire lenta, ondeggiante, con quel cucciolo di donna.

Le immagino mentre fanno colazione. Ne immagino i discorsi. Le racconterà di sé. E quella piccola alcune parole le ricorderà per sempre. Ne sono sicura. Chissà cosa mangeranno. Le pulirà il muso sporco di latte o zucchero a velo.

Saranno loro due, sole, e forse staranno in silenzio. Oppure la piccola la stordirà di chiacchiere.

La vista sulla stessa Genova che accoglie in una classe, ancora sconosciuta, l’altro suo nipote. Non so, ma mi si è aperto il cuore. Attimi donati.

Ieri sera, finalmente sono uscita con il mio fidanzato?. Una cena fuori. Stanchi entrambi da morire. Gli racconto della nonna. Di quei nipoti stretti alle sue mani. Di quel tempo lungo. Una mattina qualunque. Quello spazio privato tra nonna e nipote. Quel mondo più libero del nostro di genitori.

Mi vengono le lacrime agli occhi. E a lui pure. Io penso a mio padre e lui al suo.

A quello che sono stati per i nostri figli.

Penso alle sue storie buffe. Alle canzoncine che s’inventava senza senso. Che loro, tutti e quattro i nipoti, ricorderanno per sempre. Ne sono memoria. Lo è stato per noi figlie e lo sarà per loro.

È stato un padre incasinato il mio, ma io a quel casino ho voluto un sacco di bene. I padri si amano e pure le madri, qualsiasi siano. E ora mi manca da morire.

Il mio compagno mi racconta di gamberi cercati sugli scogli nella nostra Genova da suo padre con il suo bambino, quando era piccolo. Del tempo mancato con l’altra figlia. Per la malattia.

Allora penso di nuovo a quel caschetto bianco. Che quando le giornate iniziano così, sono belle. A una foto che mia sorella ha fatto ai miei nipoti e a mia madre. Camminano. Caso vuole siano nella stessa strada. Anche loro stringono le sue mani. Uno a destra, l’altro a sinistra. Li sta accompagnando al centro estivo. Sono di schiena. E in quella schiena c’è la stanchezza del corpo ma la consapevolezza di essere roccia.

Non si capisce chi protegge chi.

E sono grata alla tenerezza della vecchiaia. A quel momento in cui forse il tempo assume un altro valore. A quella storia umana che spesso viene ritenuta poco utile. Arrivata al capolinea. A come farebbe la nostra generazione senza di loro. I nostri vecchi. Alla storia che si portano dietro.

Ci sono ancora così tante cose da dire…a volte siamo così arrabbiati con i nostri genitori che perdiamo di vista il senso delle cose. Basterebbe sapersi parlare come sanno fare i bambini con i nonni e i nonni con i loro nipoti.

Annullare le distanze. Vivere la tenerezza.

Un tempo lento che noi non ci possiamo permettere. Presi dalla frenesia della vita.

Si torna piccoli quando s’invecchia. E in quel linguaggio antico che sa d’amore la pelle si increspa. E la vita si vede per quello che è.

A volte così bella da mozzare il fiato.

Come le mani di una nonna strette a quelle dei nostri bambini.

E noi li sappiamo al sicuro.

Penny

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