Dovremmo parlare ai nostri figli della fragilità. Dovremmo raccontargli cosa sono le paure. Quello che non riusciamo ad essere.

 Indicargli la strada per l’accettazione invece di dirgli che li salveremo.

Che non siamo gli eroi delle loro fiabe né facilitatori di sogni. 

Raccontare quanto sia difficile e ardua, a volte, l’esistenza. 

Parlare di quando non ci ritroviamo.

Dei pianti.

Dell’angoscia di non farcela. Dell’ intermittenza del viaggio.

Dovremmo proteggerli dalla forza a tutti i costi, non dalla fragilità.  Di quella dovremmo prenderci cura.

In qualunque modo si manifesti. 

E quando non ce la fanno, dovremmo essere al loro fianco, invece di dare la colpa al mondo per quello che non sono.

Che altrimenti gli insegniamo solo ad avere paura e a percorrere la rabbia.

È questa la normalità: una partita persa, un’ingiustizia, un amore che ci ha lasciato, non arrivare dove avremmo desiderato.

Che i fallimenti sono l’unica strada possibile, come insegnare a un bambino a camminare senza prevedere delle ginocchia sbucciate.

Sono proprio quei tentativi, quegli errori, quei voti che non soddisfano, quella scenata che ci sbattono davanti, che li salveranno.

Le cicatrici che si portano dietro. 

Sono gli stessi di cui abbiamo paura. Gli stessi che ci terrorizzano, sono i nostri fallimenti che non riusciamo a guardare in faccia.

Quelli della vita che avremmo voluto e non abbiamo.

Che a essere fragili si diventa forti. Quella forza capace di apprezzare gli scarti, le storture.

Ciò che siamo, e i figli che abbiamo.

Penny

 

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