I pentolini, la cucinetta, le bambole, sono lì, nella casa dei ricordi; la cura, quella per gli altri.
Se in classe chiedo di mettere a posto, sono le bambine che si muovono subito.
Se lo chiedo a un bambino, è quasi incredulo. Mi guarda e mi chiede:
“Perché io?”
Non che la domanda sia sbagliata, i maschi si fanno le loro ragioni, ma alle femmine non viene neanche in mente, danno per scontato che tocchi a loro.
Sono pronte. Scattano. Organizzano. Se non le fermassi credo ripulirebbero l’aula da cima a fondo, compresi i vetri. Si comportano bene. Lo fanno per me, credo. E per loro stesse. Hanno imparato presto a compiacere. I maschi no, i maschi possono essere bambini svogliati e giocherelloni. A noi basta. Li perdoniamo di più.

Mi rendo conto che questa idea della cura, del “supplire” alle mancanze degli altri, soprattutto quella maschile, è così intrinseca dentro di me che mi devo sforzare per non chiedere solo alle femmine. So che sono responsabili, so che basta un’ unica spiegazione, so che non fanno storie. Non mi viene spontaneo equilibrare i compiti, ci devo pensare e correggermi.
D’altronde alcune donne sono ancora ferme si pentolini. Ai sì. A mettere i piatti in tavola prima di uscire una sera con le amiche, anche se in casa c’è un lui: marito o compagno. Anticipano per non farsi rompere le scatole mentre sono lì, con il bicchiere in mano: “Dove hai messo il ciuccio? la crema? i pannolini? Luca non trova il libro di greco… Maria cerca il suo maglione blu...”.

A chi va meglio, prima di uscire, l’uomo domanda:“Cosa preparo ai ragazzi per cena?”.

Possiamo crederci emancipate, ma la strada è ancora lunga.

Gli uomini se cucinano sono chef, lo fanno nella cena del sabato sera di fronte ad astanti entusiasti: “Sei fortunata, è bravissimo!” dice uno degli amici. Poi alle donne tocca rassettare il disastro dello chef, e cucinare tutti gli altri giorni, dentro ai tempi stretti, dopo aver lavorato, messo a posto, accompagnato. Sei cene a  uno, è un po’ pochino. Potete pensare che sia esagerata, ma se entrassi in molte case, so che non troverei una situazione diversa da quella che ho appena descritto.
Ricordo una vacanza. Una di quelle condivise con un’altra coppia, per alleviare la fatica dei figli piccoli. Io e mio marito litigavamo di lungo, non reggevo le sue imposizioni, non riuscivo a trattenermi. Non che il marito della mia amica fosse meglio, imponeva parecchio anche lui, il cibo, ad esempio, ma lei non si ribellava, acconsentiva a ogni richiesta, si occupava del bimbo da sola. Più loro erano tranquilli, più a me veniva il nervoso.

Un giorno ho chiesto alla mia amica: “Ma come fai? Come fai a non farti venire la carogna?”
Lei si è girata e mi ha detto: “Lo tratto come fosse un bambino”.

Voglio un amore da trattare come un adulto. Ci ho messo tanto a capire che non voglio essere madre per il mio uomo, e ne ho trovato uno che non me lo chiede. Perché uomini capaci ce ne sono tanti, uomini che lasciano spazi e stanno accanto, a cui non si deve preparare la cena, perché ci pensano da soli e magari pensano anche ai figli. In cui c’è equità nella divisione dei compiti, o almeno un quaranta-sessanta. Che spingono i desideri delle loro donne e le loro aspirazioni. 

In passato facevo, preparavo, organizzavo, con quella punta di nervoso nello stomaco, che era rabbia. Mi sentivo incastrata dentro a un ruolo. Se non stai all’interno di schemi prestabiliti, non sei una brava moglie e, se provi a resistere, parte il ricatto più grande, quello per cui capitoli: non sei una buona madre.

E quella punta di nervoso, diventata con il tempo una matassa, che ingarbugliava ogni cosa della mia vita, adesso non c’è più.

C’è la cura. Che è altro da quel compito prestabilito: essere moglie e madre.

Il nostro compito, il primo, quello a cui dobbiamo rispetto, è quello di stare bene. Non ce n’è un altro più urgente. E questo non passa necessariamente da un marito e da un figlio, dall’amore sì. Temporaneo, eterno, appassionato, fraterno, materno, umano, amicale…non importa di che tipo sia. Ciò che ci deve riguardare, che non dobbiamo perdere di vista, è l’equilibrio. Quel dare e avere che deve pesare allo stesso modo.

In passato mi sono odiata, ho odiato i conflitti a cui non riuscivo a sottrarmi. Guardavo altre donne, così certe, dentro a matrimoni distratti, e non riuscivo a quietarmi. Ora so, che quella punta di nervoso, diventata matassa, mi ha salvato.

Ora so che “Il dolore non è altro che la sorpresa di non conoscersi”, come dice Alda Merini. Ora so che l’amore non prevede compiti, né squilibri. Solo amore. Quello che basta a se stesso.

Penny

#ilmatrimoniodimiasorella

16 comments on “Il dolore. La sorpresa di non conoscersi.”

    • Caro Francesco, grazie. Cerca di stare bene, a volte la vita, comincia alla nostra età…non mollare per quanto riguarda i tuoi desideri e le tue aspirazioni. Un abbraccio Penny

  1. Mia figlia mi rimprovera di non essere abbastanza insistente con suo fratello per fargli assimilare certi gesti e azioni come normali e ricorrenti, es. sparecchiare, rimettere in ordine gli spazi che usa, lavare il bagno (mah! questo sarebbe un risultato straordinario). In realtà lo sono, insistente, eccome! Il ragazzino è un campione di orecchio di mercante. Fa assolutamente finta di non sentire, si fa scivolare addosso qualsiasi parola. Ripongo la speranza nell’esempio visivo e concreto dato dal padre (che cucina tutti i pranzi dei giorni lavorativi, riassetta i letti, sistema e avvia la lavastoviglie. Non proprio cose di poco conto. Chissà un giorno, almeno, non sarà come gran parte dei maschi italiani. E’ la mia speranza. E non mi arrendo.

    • Cara Marigon, gli atti sono l’unico insegnamento possibile. Con i figli le parole servono a poco. Un padre così è un grande esempio, una possibilità di cambiamento. Non ti arrendere. Se non ci muoviamo noi, chi può farlo? Ti abbraccio Penny

  2. Grande. Per tutto il discorso.
    E per quella frase poesia. Uno squarcio. Una veritá di base. Qyando la lessi tre anni fa, capii tutto, capii perché tanti male. Finalmente mi stavo conoscendo.
    La tua fatica le tue difficoltá hanno.un senso – forse – perché ti hanno dato la forza il bisogno di scrivere wueste cose per noi. Terapie, balsami. Un abbraccio. Continua cosí ma…ora..sempre più leggera. É un augurio di cuore. Simo

  3. Quanto vorrei averti vicina. Sei l’unica che riesce ad esprimere la “matassa” che ho dentro e a non condannarmi! Ma come si fa a guarire? Un abbraccio Penny, anche se virtuale

    • Si guarisce pensando che c’è la cura. Che le matasse si sbrogliano e ci vuole tempo. Che facciamo ciò che possiamo. Ma, soprattutto, cara Barbara, si guarisce volendosi bene; è più facile di quello che si creda. Un pezzo di sé al giorno. Ti abbraccio Penny

  4. Ci si perde dentro una cucina che “è il nostro regno”, dietro a tanti bambini compreso quello che sembra adulto, dietro a compiti e doveri non scritti ma sottintesi ed ovvi….perchè poi se non si agisce in conformità scattano i ricatti e le scenate e per ultimo anche un po’ di violenza, così tanto per gradire. Ma il rispetto per noi stessi è la cosa più importante ed invece arriviamo ad un punto che non sappiamo nemmeno più chi siamo, quali sono i nostri desideri, quali i nostri sogni e non diciamo più che tutto questo è Amore.

    • Cara Fulvia, credo che sia la storia di molte, è stata la mia. Non so cosa mi abbia aperto gli occhi, forse il dolore. Forse la consapevolezza che il tempo è poco e ho avuto paura di perderlo. Ci ho messo tempo per capire chi sono, e che cosa volevo, a volte, ancora mi perdo. Ma ora so che il mio regno sono io. Ti abbraccio Fulvia.

  5. Un giorno un’amica rivolgendosi ad un’altra disse: lo sai, a casa loro (mia) cucina suo marito! E questa, rivolgendosi a me: ma allora tu cosa fai? Risposta mia: mi gratto tutto il giorno.
    Cara Penny, il problema è solo di noi donne che consideriamo anormale una cosa banale come cucinare, fare i letti, stendere. Ho milioni di amiche che fanno la valigia al marito xche questo non sa neanche dove siano le mutande. Io benedico ogni giorno mia suocera che ha cresciuto un uomo e non un eterno bambino. Spero di essere altrettanto brava con i miei ragazzi.

    • Lo credo anch’io, credo che ogni movimento parta da noi, soprattutto dalle donne. Forse ci sentiamo brave dentro a ruoli di sostituzione, forse ci serve per non mettere mano alla nostra di vita…chissà. Ti abbraccio Penny

  6. Grazie Penny.
    Come sempre sai dare voce ai miei pensieri per cui mi sento terribilmente in colpa.
    Quella punta di nervoso è diventata una matassa..solo che io ancora non sono riuscita a liberarmene per via dei sensi di colpa e la paura per i figli.
    Ma a volte mi chiedo se sto facendo bene…vero come dici che l’esempio vale più di mille parole: per questo quando guardo mio figlio vedo un piccolo uomo che sta ahimè riprendendo le orme del padre. Tante belle parole ma poi, nei fatti, l’idea di fondo è che “tu sei donna ed è il tuo ruolo”.
    Volevo crescere in piccolo grande uomo ed invece sto fallendo.
    Ed ancora peggio mi chiedo che esempio possa essere io per mia figlia: donna emancipata solo a parole ma poi, nella realtà, sono il classico cliché.
    Inorridisco a questi pensieri.
    Ho letto una volta che non è l’amore ad andarsene per primo ma la “pazienza”.
    La pazienza di chiedere, di aspettare di essere compresi, di comprendere l’altro.
    Vero che l’amore anzi la vita familiare è un compromesso, ma è pur vero che siamo tutti quarantenni ed oltre, capaci di volere sempre ma di intendere solo quando ci fa comodo.

    • Sei troppo dura con te stessa. I tuoi figli respireranno il tuo stare, ma anche quella parte che metti qui, quella che desideri, ne sono certa. Per me è stato così, nonostante mia madre, mio padre e le sue scelte. Ogni famiglia porta con sè tanti aspetti. Il caos e la sua soluzione.
      Sembra strano ma è così.
      Ps tu parlarla ad entrambi, tutte le volte che puoi. Gli atti sono importanti, ma anche le parole restano. Ti abbraccio Penny

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