Loro entrano in classe, si siedono in un banco vuoto. Sono in due solitamente.  Sorridono. Parliamo del loro bambino. Dopo un anno un pochino anche nostro. Spieghiamo i compiti. Raccomandiamo di leggere. A voce alta. Dieci minuti al giorno. Annuiscono. E io sono certa che s’impegneranno. Vogliono il meglio per il loro bambino.

Chiediamo dove vanno in vacanza.  Loro ci parlano del centro estivo: Karate, calcio, inglese… per una, due o  tre settimane. “Si diverte così tanto”, dicono sorridendo. Poi mare. Montagna. Campagna con i nonni. Che il rapporto con i nonni è importante. Li viziano, ma pazienza.

Loro sono bianchi e italiani.

E mentre raccontano immagino i miei bambini. Il tempo dilatato, i tuffi in piscina, le scorribande in campagna, le gite, le coccole dei nonni. La rincorsa ai compiti che non vogliono fare. Le merende più lunghe e più sane. I giochi in spiaggia.

Ne immagino le sere. “Cosa leggiamo?” chiedono la mamma o il papà attingendo dalla libreria, pronti a stimolare il loro piccolo. E poi lo ascolteranno con pazienza. Correggeranno gli errori e la pronuncia. Lo baceranno, gli rimboccheranno le coperte del loro letto singolo e lui saprà di sale, di aria, di mare e di libertà.

 

Lei entra in classe, si siede in un banco vuoto. Solitamente è sola. Hai il viso stanco, il corpo appesantito. Parliamo della sua bambina. Dopo un anno un pochino anche nostra. Spieghiamo i compiti, con calma, perché capisca bene. Raccomandiamo di leggere. A voce alta. Dieci minuti al giorno. Annuisce.  Le regaliamo dei libri: tre, quattro. Tutti quelli che vuole. Non ne hanno in casa. Le chiediamo se ha un computer, e io mi pento immediatamente di quella domanda. 

Non le chiediamo dove vanno in vacanza, forse, per paura. Lei ha voglia di parlare, ci dice che si è informata per i centri estivi: Karate, inglese, musica… ma sono troppo cari. Che se la porterà dietro la sua bambina. Al lavoro. Sulle spiagge. A casa della signora  di cui si occupa. 

Lei è nera e straniera.

Mentre parla immagino i miei bambini. Questi che camminano sulla spiaggia, seguendo le orme della madre. O vanno da una signora anziana, che è la nonna di qualcun altro, e stanno lì, mentre la madre la pulisce, la cura, se ne occupa.

Li immagino senza nonni vicino, appunto, lasciati in un Paese lontano. Senza tempo dilatato, scorribande in campagna, gite in montagna, merende sane e tempo dedicato.

Li immagino in piedi alle otto e anche prima, come fossero ancora a scuola. Immagino le loro sere, le letture, forse; una pronuncia che difficilmente sua madre potrà correggere. Li immagino nello stesso letto, mamma e figli, però. Vicini per necessità.

Lei è seduta al tavolo e, dentro a quel colloquio, i compiti e le pagelle mi sembrano davvero poco cosa, eppure è grazie alla cultura, alla scuola, se questi bambini avranno una nuova possibilità. 

E la storia non si ripeterà uguale a se stessa.

Qualcosa non torna. Sono tutti bambini nostri. Eppure, per una parte di loro, straniera e con la pelle scura, mi preoccupo di più. E mi chiedo, quale lavoro ci rubino i loro genitori, in cosa consiste questa pacchia di cui si parla.

Io in spiaggia mi ci corico, non la percorro a piedi con le mie figlie dietro, e un cesto sulla testa, non attraverso il mare su un barcone, io prendo i traghetti, qualcuno, più ricco di me, in barca ci va in vacanza.

Io vedo solo una grande enorme disparità. Davanti ai miei occhi sono tutti bambini. Davanti ai miei occhi sono tutte madri.

Non vedo altro. Forse fatica. Sofferenza. E tentativi di resilienza in un Paese che non li vuole e li respinge. Poi sento parole, azioni e termini che parlano di un nemico.

E guardo gli occhi di quella madre e della sua bambina e so già che la sua estate non sarà come quella di molti altri. E la forbice tra lei e i suoi compagni si allargherà, così noi potremmo continuare a dire che abbiamo un nemico e c’è qualcuno da odiare per le cose che non vanno.

E ci distraiamo pure un po’ dai problemi veri. Forse è quello che vogliono.

Alla fine del colloquio, ho abbracciato quella madre tutta colorata con un sorriso grande quanto il mondo, con quattro figli in un altro continente. “Li ho fatti studiare tutti”, mi ha detto, come fosse una speranza. 

Ho augurato a lei e alla sua piccola delle buone vacanze con un po’ di vergogna.

E tutte le volte che mi coricherò su un asciugamano in spiaggia e vedrò passare una delle tante donne, seguita dalla sua bambina, magari con un cucciolo sulla schiena, penserò a lei e a tutti i bambini figli della pacchia. E, forse, sapranno anche loro di sale, di aria, di mare, non di certo di libertà.

Quella è un privilegio dei nostri figli. I figli della meritrocazia.

A certi adulti piace vincere facile.

Penny

sosdonne.com

#ilmatrimniodimiasorella. 

7 comments on “I figli della “pacchia”.”

    • Avere un nemico ci rassicura. Dare le colpe ci rassicura. Ci manleva dalle responsabilità. Ma essere umani è una nostra responsabilità, forse la più grande. Penny

  1. Ho vissuto qualcosa di simile consegnando le pagelle.
    Ho visto gli occhi lucidi e increduli di una donna davanti ai voti del figlio, ho visto lo stupore del marito: “Allora è vero quello che ha detto mia moglie!”.
    Ho visto la gioia fiduciosa di un ragazzino che caparbiamente ha fatto passi da gigante.
    Questi ragazzi il futuro, non nostro o loro, ma di tutti!

    • Abbiamo delle grosse responsabilità tra le mani, bisogna sempre ricordarlo…un uso buono o pessimo delle parole possono spingere o creare danni. Ti abbraccio Penny

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