Che mondo è quello in cui una bambina di 9 anni a Natale deve piangere per fermare il padre mentre strangola la madre?

Che mondo è quello in cui una bambina di 9 anni cerca di curare le ferite, di togliere quel cavo elettrico intorno al collo, di prendersi cura e fare in modo che sua madre non muoia?

Quanto vale in questo caso il pianto di una bambina?

La vita di sua madre, oserei dire.

Come farà lei a risanare le sue di ferite. Come farà a non essere una nuova vittima? Come farà a distinguere tra l’amore e la violenza? Come farà ad avere fiducia negli uomini? A capire che un padre può arrivare ad uccidere la donna che dice di amare? E che quello non ha niente a che fare con l’amore?

Noi, gli adulti, dovremmo proteggere i nostri bambini, invece, a volte, non succede.

Dovremmo insegnargli cosa si chiama amore, che sappiamo lasciarci. E sappiamo ricominciare.

Dovremmo insegnare noi alle bambine a dire No. E ai bambini ad accettare quel No.

Invece il grido di una madre non basta. Serve un figlio, a volte, che pianga per noi di fronte alla tragedia.

Alle nuove  generazioni continuiamo a ripetere frasi fuorvianti. Lo fanno anche i guru quando dicono che chi si separa è attratto dal “nuovo” o non si impegna abbastanza nella relazione.

La colpa è sempre di chi lascia. I femminicidi e la possibilità di lasciarci sono strettamente collegati, il concetto di coppia, pure.

Ci raccontano che l’amore è tutto nella vita, che esiste il vero amore, che è un per sempre. Che noi donne dobbiamo provarci.

Eppure sono gli uomini che si frantumano. Di fronte a un rifiuto. A un dissentire. Alcuni uccidono.

Se la nostra società e evoluta, se gli uomini e le donne hanno uguali diritti, perché succede?

Cosa arma un uomo, se non il fatto, che quella donna la considera cosa sua?

Datemi voi la risposta.

E poi, di fronte alle possibili separazioni c’è chi ancora sostiene: i bambini soffrono quando due genitori si separano, facendo di tutta l’erba un fascio.

Allora, non separiamoci quando le cose non funzionano, perseguiamo quel concetto di famiglia tradizionale, così sponsorizzato nel ddl Pillon, rimaniamo, anche se siamo infelici, anche se ci facciamo del male, anche se un giorno di Natale una bambina deve salvare sua madre.

Continuiamo a dire che la famiglia comporta sacrificio, che le relazioni sono “liquide”, continuiamo a confondere i piani.

Il matrimonio se è un contenitore di persone infelici è la cosa più sterile che esista, e produrrà altra infelicità nei nostri figli.

L’amore è fatto di arrivi e partenze. Di libertà individuali. Di aggiustamenti. Non di sacrificio. Soprattutto, quando il sacrificio costa la vita alle donne. Perché non sono quasi mai gli uomini a morire.

Oppure mi sbaglio?

Dobbiamo proteggere i nostri figli, dobbiamo farlo anche con parole nuove.
Insisto: è necessario raccontare la verità sull’amore, perché dalla fine di una relazione i nostri bambini sopravvivono e, spesso, sono bambini felici. Capiscono che si può ricominciare, che la libertà è un valore, la “persona” è un valore.
La felicità pure.

Non devono essere i nostri figli a tenerci insieme. O a salvarci. Mai. Quello sì che li renderà infelici. Dentro ad altre storie infelici. Come una catena.

Penso a quella bambina che ha salvato sua madre. Al suo pianto. A questa storia triste. Da raccontare anche se fa male.

E, qualcuno ne avrà noia e mi dirà che non se ne può più di sentire certe cose. Sono le donne che non avvertono il peso delle catene dentro cui sono cresciute come una normalità, sono gli uomini che non avvertono le ingiustizie oppure ne sono così alienati da non rendersi conto che le legittimano.

Per questo racconto. Ancora e ancora. Divento noiosa. Sfinisco.

Sono necessarie nuove storie in cui le donne non vengano più uccise dai loro mariti. In cui i figli possono essere figli e non debbano salvare nessuno.

Se non il loro essere bambini un giorno di Natale.

Penny
#ilmatrimoniodimiasorella

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