Un mio bambino straniero parte per due mesi per tornare nel suo Paese. Lui, è uno di quelli fatti di piuma.

Suo padre ci ha raccontato, in un italiano stentato, che in questo periodo ci sono delle distese di fiori gialli e vuole farglieli vedere.

Gli altri bambini gli hanno scritto delle letterine. Erano preoccupati che lui si dimenticasse di loro, gli hanno scritto: ci mancherai. 

Erano tristi del fatto che lui andasse via ma felici per la sua felicità, anche se lui non sa dirlo come si sente, ma ora, noi lo capiamo, capiamo che siamo importanti.

Ce lo dicono tante cose: gli occhi, ad esempio. Il sorriso. Pure gli abbracci.  Gli hanno scritto: abbi cura di te.

Proprio così. I bambini hanno ben chiaro cosa sia la cura.

Poi, stamattina, i genitori, tutti insieme, si sono organizzati e gli hanno comprato un regalo, dei cartoncini, dei pennarelli, delle macchinine e altro e hanno preparato una torta tutta di caramelle e marshmallow e chupa chups, che sembrava uscita dal Paese delle Meraviglie.

E io, insieme alle mie colleghe, eravamo così felici e grate. Per queste famiglie. Per i loro bambini. Per quella piccola comunità che proviamo ad essere.

Perchè, ogni tanto, gli insegnanti dovrebbero dirlo ai genitori che sono capaci.

Abbiamo bisogno di sentirci rassicurati tutti quanti, di sapere che insieme è possibile essere migliori.

Questo nostro bambino è disabile e straniero. Due partenze in salita.

Un bambino, due settimane fa, mi ha chiesto se Gesù è italiano. E la domanda dice tutto del clima che stiamo vivendo.

Eppure esistono luoghi in cui è possibile volersi bene, perchè la scuola, dovrebbere essere anche questo, declinare il sapere in un clima che fa crescere tutti.

Esistono genitori che ci provano a prendersi cura, non è vero che sono solo un disastro, che non sanno educare o sono giustificatori. Sono tante cose, come noi insegnanti.

E i bambini ci guardano, imparano e ci insegnano. 

Ad esempio che la disabilità è un valore. Che siamo tutti stranieri. Che la società è migliore dei suoi governanti.

Che abbiamo da imparare tutti. Da tutti.

Che la vita, per alcuni, è proprio in salita ma la scuola, in quella salita, può caricarsi il tuo zaino sulle spalle, porgerti un po’ d’acqua e dirti: proviamo insieme ad arrivare in cima.

Perché io non li dimentico gli occhi stanchi di quel padre e di quella madre, a volte, occhi soli. E non le dimentico quelle parole: abbi cura di te, nè la torta di caramelle fatta da una mamma nè il regalo portato trafelato da un’altra. Non dimentico il nostro essere scuola.

E, oggi, quando sono tornata a casa, i passi erano leggeri, la vita così bella, e il cielo mi è sembrato potesse essere lo stesso per tutti.

Proprio per tutti.

Penny

4 comments on “Noi insegnanti, a volte, dovremmo dire grazie. Ai bambini. Ai loro genitori.”

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