Sono tornata.
64 bambini.
Tre classi seconde.

Gita a Borgio Verezzi.

Parlo al singolare ma la mia è una narrazione corale. Ci sono le mie colleghe con cui ho condiviso il viaggio e le emozioni.

Il lavoro che funziona, la vita che funziona, non è mai in solitaria, la condivisione salva tutti, persino la Scuola.

Due giorni di tenerezze. Bambini che hanno bussato continuamente alla porta della nostra camera, persino alle sei di mattina, pronti per la giornata.

Zainetti disfatti che non si riuscivano più a ricomporre. Giacche, maglioni, magliette che non erano di nessuno. Domande buffe. “Ci mettiamo il pigiama?” mi ha chiesto un bambino appena gli abbiamo fatto sistemare le cose nelle camere, mancava un quarto a mezzogiorno?.

Un altro ha avuto mal di pancia, ha sentito la sirena di un’ambulanza e mi ha domandato: “Vengono per me?”.

E, allora, non puoi fare altro che ridere e sorridere e sentirti leggera.

I bambini sono stati bene. Ne sono sicura. Anche chi ha avuto malinconia. L’ora è sempre la stessa, l’arrivo della sera. Sono stati bene, ne sono certa, anche quelli che hanno avuto paura di non farcela a superare due giorni lontano da casa.

Due bimbi hanno avuto la febbre. Uno a un certo punto ha voluto andare in camera, gli abbiamo messo il termometro, come fanno le madri, gli abbiamo infilato il pigiama e lo abbiamo coperto per bene.

Poi, sempre come fanno le madri, lo siamo andati ripetutamente a controllare. A un certo punto era tutto sudato, così lo abbiamo cambiato di nuovo.

Guance rosse e occhi stretti.

Una bambina ha avuto bisogno di noi, in fondo al letto, per addormentarsi. Alcuni hanno dormito in due, vicini vicini.

Altri hanno rimesso le stesse calze per due giorni.

Uno, quello del mal di pancia, mi ha detto:”Vomito!”.

“Vomita, non succede nulla, vedrai che dopo starai meglio”gli ho risposto cercando di tranquillizzarlo.

E così è stato. In mezzo al sentiero. Ha vomitato due volte. Io e le mie colleghe ci siamo date il cambio.

Gli altri bambini lì a preoccuparsi per lui. Qualcuno, a un certo punto, gli ha chiesto: “Ora stai bene?”.

La verità è che sanno volersi bene i bambini, sanno essere fratelli. Non lasciano indietro nessuno.

Se lo fanno è colpa nostra.

Siamo arrivati fino in cima.

Sessantaquattro bambini. Il passo era lo stesso. I sorrisi pure. Il colore della pelle no, la condizione economica neppure.

Ma chi ci faceva caso?

Si lamentavano tutti. Abbiamo fame. Abbiamo sete. Quando finisce la salita? Quando ci fermiamo?

Le solite domande che fanno i bambini. Eppure c’erano passi leggeri e un vociare felice.

E quando siamo arrivati lassù la fatica era stata la stessa e il panorama pure.

Si vedeva il mare. La città era lontana. Non c’erano genitori vicino a quei bambini a trovare soluzioni. Dove mi siedo? Dove metto la giacca? Quando arriviamo. Quell’esperienza era solo la loro. Come un dono di autonomia.

E poi, alla stazione, ci sono stati abbracci stretti, corpi vicini. Così vicini da confondersi.

Mentre tornavo a casa pensavo al concetto di famiglia.

Pensavo che non si può essere dei buoni genitori se non si lascia lo spazio ai figli di fare esperienze di autonomia al di là di loro.

Pensavo che essere buoni genitori vuol dire insegnare ai propri figli a fare a meno di noi.

Renderli capaci di superare le situazioni quelle più felici e quelle meno felici.

Essere dei buoni genitori vuol dire insegnare ai propri figli a condividere le esperienze insieme agli altri.

Dargli l’opportunità di sperimentare se stessi, di affidarsi e affidarsi.

Sono tornata a casa e ho pensato alla gratitudine. Quando torno da una gita sono sempre grata, mi sento parte di un gruppo, di qualcosa di più grande del mio microcosmo famigliare.

Mi sento grata nei confronti delle mie colleghe. Dei genitori e dei loro bambini che si affidano.

Sono entrata in casa e le girls erano intorno al tavolo. Mi hanno sorriso.

Il sorriso era quello della mancanza. Che è bello mancarsi e perché ciò accada, a volte, bisogna non esserci.

Una delle due mi ha chiesto:”Com’è andata?” ma sapeva già la risposta.

Stasera staremo più vicine, lo so. Avremo un sacco di cose da raccontarci. Stasera non ci daremo per scontate.

E sarà bello.

Bisogna essere lontani, sapersi lasciare andare , a volte, per essere più vicini. Così vicini da sentirsi il cuore.

Penny

2 comments on “Essere buoni genitori vuol dire insegnare ai propri figli a fare a meno di noi.”

  1. Bello il tuo racconto, Penny.
    Mi sembra quasi di provare le tue stesse emozioni, di sentire le stesse cose che hai sentito tu…
    Credo che sia proprio così come hai descritto tu: il senso della condivisione, del sentirsi gruppo, dell’autonomia, della mancanza…
    Grazie

    • A volte è faticoso, ma necessario, credo. Per il futuro, la speranza è che i nostri figli sappiano essere solidali. Grazie Penny

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