C’è un’immagine che mi sono portata dietro come un dono in questo weekend e non mi ha abbandonata.

Due miei alunni sono in palestra. Otto anni.

Uno dei due tira a casaccio la palla verso il canestro, scappa, io lo rincorro sperando non si faccia male, ma vista la mia vecchiaia e la sua agilità, non lo becco, lui sembra divertirsi parecchio e urla: “Io giocare”.

Lui è affetto da autismo. L’altro, uno di quelli che tende a fare un po’ lo spavaldo, lo segue e cerca di bloccarlo, a un certo punto gli dice:

“Vieni qua, fermati, ti insegno io”.

È a quel punto che lui si blocca, guarda attentamente come fa il suo compagno, mentre piega le ginocchia e gli mostra come mettere la palla appena sopra alla testa.“Ecco, devi fare così” gli spiega con movimenti lenti e pazienti, poi gli passa la palla.

Parlano la stessa lingua, quella che io, a volte, non so raggiungere.

Lui prende la palla, abbozza i movimenti appena visti e tira. Non fa canestro ma io sono commossa.

È sparita la spavalderia ed è rimasta la tenerezza.

Li guardo, riprovano, uno spiega e l’altro tenta. Un autistico e un “normodotato”.

Due bambini. Dovrebbe bastare essere bambini. In realtà a loro basta.

E, allora, ho pensato proprio a loro, ai bambini maschi, a quanto poco gli permettiamo di farsi portatori di cura, quanto poco permettiamo all’ espressione dei sentimenti di esistere, di farsi strada, a quanto gli richiediamo, invece, di manifestare un tipo di forza, atteggiamenti di una cultura machista.

Ho pensato a come l’esperienza della fragilità li aiuti ad essere più pronti, più capaci di sentire e sentirsi e a diventare ragazzi e uomini più consapevoli.

Mi chiedo perché l’inclusione non sia considerata un valore per tutti.

Perché si abbia paura che qualche bambino, di quelli che chiamiamo appunto “normodotati”, possa rimanere indietro a causa di chi è più fragile, quando attraverso l’incontro con l’altro, con la diversità si cresce e tantissimo.

Lui, a un certo punto, è scappato di nuovo.

“Grazie, mi hai aiutato molto. Sei stato bravo” ho detto al mio alunno prima di precipitarmi verso un nuovo inseguimento. Lui mi ha sorriso, il petto si è gonfiato, la tenerezza era lì.

Sentirsi forti dentro alla debolezza dell’altro è semplice, diverso è sapere di poter affrontare quella debolezza e quella altrui ci aiuta ad accettare la nostra.

Possiamo insegnare la cura, soprattutto ai bambini, ai maschi. E forse, dico forse, un giorno le cose potrebbero cambiare.

I bambini sarebbero bambini. Tutti.

Gli adulti, uomini e donne avrebbero gli stessi diritti. Uomini e donne che sanno stare bene insieme.

Penny

1 comment on “Insegnare la cura. Fare esperienza della frangibilità.”

  1. Mi sono messa a piangere. Cinzia sapessi come può essere delicato e toccante il mondo maschile esplorato e che si mette in discussione…… Ho un figlio maschio che piange tanto e ogni volta lo abbraccio per fargli sapere che le sue lacrime sono giuste… Che le raccolgo come fonte di vita…. Che non mi mettono in crisi…. Che essere sensibile è legittimo, bello, giusto, umano.

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