Sono giorni sospesi questi. In cui bisogna raschiare il fondo del barile e cercare il bello che c’è. Non è facile.

Alcune persone tentano in ogni modo di reagire, li vedo intenti ad occupare il tempo creando piatti, recuperando ricette: ravioli, pastiera…Mia madre segue un corso di acquarello su Istagram.

Io non so perché ma a me le feste mi lasciano un retrogusto di tristezza. Non so spiegarlo, anche a Natale è così. Che ora il Natale mi sembra un miraggio.

È da giovedì che non sento i miei bambini, mi sono ripromessa di lasciare a me stessa e a loro un tempo buono senza connessione.

Li penso spesso, però, li immagino festanti per l’apertura delle uova e mi chiedo se il desiderio l’ottimismo tipico dell’infanzia sia più grande di tutto questo.

Mi sforzo di vestirmi per non stare in tuta tutto il giorno.

Mia figlia ieri mi ha detto: mamma sei un po’ sciupata. Porto sempre le stesse scarpe da ginnastica, un paio di jeans e un maglioncino.

Mi trucco, matita nera e rossetto.

Lo schermo, ormai presente nella mia vita come uno specchio, mi rimanda questa immagine rugosa di me. La mia pelle è crollata prima delle mie amiche. Lo vedo e non credo di poterci fare niente.

Alcune di noi fanno ginnastica: addominali e saltelli. Io non ci riesco, sono pigra e da sola mi fa schifo farlo, però cammino con Alaska.

Il giro alto dell’isolato: mascherina, occhiali che si appannano in continuazione, un romanzo nelle orecchie. La mia mezz’ora d’aria.


Bisogna darsi delle regole, anche con i bambini bisogna farlo. Sveglia a una certa ora, lavarsi, vestirsi, compiti per loro, lavoro per gli adulti. Preparazione del pranzo. Siesta. Di nuovo compiti, giochi, passeggiata con il cane, se c’è, giro intorno al palazzo se non c’è.

Dare una scansione al tempo aiuta a dare una parvenza di normalità, anche se, diciamoci la verità, di normale in questa storia non c’è niente.

E allora mi chiedo cosa davvero renda felice l’uomo. Ci avvitiamo intorno a situazioni assurde in cui perdiamo di vista ciò che ci fa stare bene.

Se dovessimo pensare, adesso, a ciò che ci renderebbe felici sono sicura che diremmo: una passeggiata, un bagno in mare, un abbraccio, poter stare vicino a nostra madre, un caffè al tavolino con un’amica, quattro chiacchiere per strada, una camminata nel bosco, un gelato di quelli sciolti, una pizza all’aperto.


Eppure, sappiamo che nella nostra vita ordinaria nessuno di queste cose c’è mai bastata. Lo sappiamo, perché ci lamentiamo, perché vogliamo di più, perché quella casa non ci basta, quel vestito nemmeno, vorremmo essere più belle, più magre, più brave.

Vorremmo che i nostri figli ci dessero delle soddisfazioni, che si comportassero come ci aspettiamo. Vorremmo.

E succederà di nuovo, appena tutto questo sarà un ricordo lontano. Credo faccia parte dell’uomo non accontentarsi, aggrovigliarsi, perdersi.

In tutta questa storia c’è una cosa solida che mi accompagna e non so come possa stare chi è in bilico in questo momento: ed è il lavoro.

Il lavoro è ciò che ci rende liberi.


Quando mi alzo la mattina ci sono milioni di incertezze nella mia vita, come in quelle di tutti. Ma il lavoro mi contiene.

Attenzione: un lavoro che mi sono cercata, ho passato una selezione per entrare in un corso para universitario a numero chiuso, un concorso nazionale e ho fatto la mia gavetta come supplente, nulla mi è stato regalato, questo vorrei che fosse chiaro, perché quando si parla di dipendenti statali, si parla sempre di una categoria di privilegiati.

Ho scelto di non essere consapevolmente un’autonoma sapendo che non avrei fatto carriera, perché non esistono promozioni e avanzamento e che il mio stipendio per quarant’anni e più o meno sarebbe stato lo stesso. Ho fatto una scelta.

Questa scelta, però, mi ha dato delle garanzie e delle tutele.

E credo che le tutele dovrebbero esserci per tutti, dipendenti e non. La maternità ad esempio. La malattia ad esempio.

Ma, allo stesso tempo, tutti dovrebbero pagare le tasse in maniera coscienziosa. I servizi pubblici, allora, in questo momento sarebbero stati il nostro tesoro, la nostra soluzione.

Invece, diciamoci la verità, la nostra Italia evade e tanto (lo dicono i dati) e l’orticello che curiamo, spesso, è quello personale.


Comunque, non voglio sentir parlare di fortuna quando riguarda il mio lavoro, però una cosa ve la dico, la dico soprattutto alle donne perché sono quelle che più facilmente rimangono a casa ad occuparsi della prole, facilmente ricattabili. E, qualcosa mi dice, che saranno le prime ad essere sacrificate.

Se pensate al dopo, c’è solo una cosa che può renderci libere ed è il lavoro.  E allora, se proprio deve restarci una memoria in testa e nel cuore, è questa.

Fate di tutto perché la vostra vita e quella delle vostre figlie venga spinta in questa direzione.

Non è vero che sarà l’amore a salvarci e nemmeno dei figli, non è vero, e lo so che mi pensate cinica quando dico queste cose, ma è la verità.

Strappo alla nostra narrazione tutto ciò che di romantico ci hanno sempre raccontato.


L’unica cosa che ci salverà, che ci terrà in piedi, che ci darà possibilità di scelta e movimento sarà il lavoro.

Trasmettiamo questo alle giovani donne e ricordiamolo a noi stesse quando usciremo dall’isolamento: il lavoro è la nostra libertà.

Questa è la favola che dobbiamo iniziare a raccontare.

Penny

4 comments on “Memoria del Covid-19. Il lavoro è la nostra libertà.”

  1. Grazie Penny, sembra la mia storia…e anche io la penso così…qualcuno mi prende in giro e dice che mi conveniva stare a casa con la famiglia …ma per era giusto così.

    • Ecco, c’è una cosa che l’età e il dolore insegnano: non curarsi di chi dice cose che non ci fanno bene, sterili e basta. Ti abbraccio tanto.

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