Lui le tira una sberla. Poi un’altra. La scaraventa contro una macchina.

La prende per la giacca e la trascina in mezzo alla strada. Lei sembra un corpo morto. Due calci: uno nella schiena, fortissimo, l’altro nella pancia. Lei grida: basta.

È abituata a farsi picchiare, lo si vede da come posiziona il corpo.

La trascina ancora, un altro uomo senza troppa convinzione cerca di fermarlo. Lui si allontana, lei è rannicchiata a terra, si lamenta. Lui non è ancora sazio e ritorna correndo. Riparte.
Lei ripete: ti prego! ti prego!


Lui non ha finito, la sua rabbia è ancora lì, l’afferra per i capelli, tira altri calci.
È colpa mia, dice lei.


Una signora da un balcone urla un: ehi! piuttosto timido. Lui non sembra preoccuparsene troppo. Finirò in galera, dice.
Alla fine le sputa in faccia.
Il video di oscura.

Lui ha 45 anni, pregiudicato con alle spalle numerosi procedimenti penali, lei appena 23.


Ho visto quel video perché me lo ha mandato un uomo e mi ha chiesto di parlarne. È di una violenza inaudita.

L’uomo nel video aveva appena concluso gli arresti domiciliari con obbligo di dimora, grazie al video è stato identificato e il 45enne è stato rintracciato nel suo domicilio.

La vittima ha minimizzato l’accaduto riconducendolo a futili motivi di gelosia rifiutandosi di sporgere denuncia.

Il pregiudicato è stato comunque denunciato all’autorità giudiziaria in applicazione della normativa sul Codice Rosso a tutela delle vittime di violenza domestica.

Ho visto quell’uomo e ho pensato alla resa. A quel corpo che si faceva trascinare abituato alle botte. Sembrava quello di un manichino, ma quel manichino ha un nome, una storia e appena ventitré anni.

E poi c’era quella rabbia furiosa, che non si placava.
L’ammissione di colpa di lei.
Lo sputo.

Ho pensato che nessuno è intervenuto con forza. Nessuno.

E ho pensato a tutte quelle donne picchiate e morte per quella stessa rabbia inaudita e feroce. 

Pensavo alle singole parole dei giornalisti: gigante buono, raptus di gelosia, marito esemplare, quelle frasi di empatia nei confronti del carnefice.


Ho pensato a quella ricerca spasmodica dell’evento scatenante, anche in questo caso è stato così, come se ci possa essere una giustificazione alcuna a tale ferocia.

Lo stomaco è chiuso. E mi chiedo cosa possiamo fare. Me lo domando ogni volta.

Quel corpo arreso e abituato alla prevaricazione non mi abbandona.

Penso a dove inizia la violenza, qual è il confine per cui viene concesso un attraversamento del limite.

La verità è che è concessa questa supremazia, per questo accade. Alcune donne la respirano dalle madri come una condizione imprescindibile al rapporto con l’uomo. La verità è che non è così lontano da noi. Serpeggia. Striscia dentro alle case, dentro alle scelte dei governi, alle sentenze, alle parole con cui viene declinata.

Lo so che parto da lontano ma ogni piccolo passo di denuncia personale e sociale verso la prevaricazione di genere, ogni ribaltamento degli schemi famigliari insani, aiuta a non normalizzare la violenza.

Non la risolve, certo, ci vuole altro e noi non bastiamo. Ma la nostra presa di coscienza, la nostra instancabile opposizione è necessaria. 

Parlare alle altre donne, fare così tanto rumore da stravolgere le regole, da costringere il sistema a intervenire.

È morta una donna. È stata picchiata una donna. Nessuna assoluzione, nessuna giustificazione, solo condanne.

Dovrebbe esserci un video ogni volta che una donna viene picchiata. Il linguaggio sarebbe diverso. Le azioni nei confronti dei carnefici sarebbe diverso.

Nessuno potrebbe negare.

Eppure dovrebbero essere sufficienti le nostre parole, i nostri segni, le nostre morti.

Non smettiamo di denunciare. Di raccontare che l’amore è altro, di indignarci anche per chi, come questa giovane donna, si è già arresa.

Non chiamiamoci fuori.

Penny

Ricordo che 1522 è il numero giusto per chiedere aiuto. I centri antiviolenza sono aperti e anche le case rifugio.

Il video è molto duro. Scegliete che fare.

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