La mattina, quando si svegliano, i nostri bambini sanno che il loro tempo sarà sospeso.

Sanno che qualcuno, una mamma o un papà, gli troverà qualcosa da fare. Uno o più consegne arriveranno da una maestra volenterosa, qualche scheda, qualche compito, intrattenimenti.

Non dategli altro nome.

Ci sarà una videochiamata con compagni e insegnanti tranquilla, se è un bambino fortunato.

Se in casa sua ci sono più stanze, se c’è la rete, se l’unico strumento in uso non è solo un telefono.

Altrimenti dovrà oscurare la telecamera perché papà lavora, oppure parlare piano perché la mamma, anche lei sta cercando di fare quello che si chiama smart working e tenersi un briciolo di mestiere.

Un bambino ieri mi ha scritto: “Sto molto male, non sa cosa fare”. Ha ragione lui, non basta riempire il tempo o scandirlo.

I bambini non sono stupidi.

Sono fatti di corpo. Niente più del corpo equivale allo spazio del pensiero per loro.

Un corpo che ha bisogno di incontrarne un altro per sentirsi bene, quello di un bambino o una bambina come lui o lei, in cui riconoscersi.

Una mia alunna, confinata in Bangladesh, esce sul poggiolo per incontrare la bambina del palazzo di fronte, non si parlano, non riescono a sentirsi, ma quando lei prende la corda e salta, anche l’altra la prende e salta.

Come essere bambini al tempo del coronavirus penso mentre leggo quello che mi scrive su un quaderno senza righe, con una penna forse viola. Ingrandisco, giro lo schermo, ruoto la foto su un messaggio whatsapp che cerco in qualche modo di correggere e rimandarle.

Un altro mio alunno ha creato un sistema di carrucole con i bambini del terrazzo di sopra, ieri hanno giocato con due uccellini di plastica, credo incontrandosi a metà strada.

Qualcuno dice che va a letto tardi, non riesce ad addormentarsi.

Buttare la spazzatura è l’occasione della giornata, “Io ci vado con mio fratello”, mi ha detto un bambino, “poi, mentre torniamo a casa corriamo come pazzi”.

Non sono un’esperta, ma i bambini li vedo e cerco di ascoltarli. I maschi, ad esempio, di fronte allo schermo non stanno un minuto fermi, le femmine, come spesso succede, sono più adeguate, ma non so se soffrano meno. Credo di noi, semplicemente mostrano meno, come sono abituate a fare.

Al tempo del coronavirus si sta svegli di notte per battere il record lettura fumetti oppure si gioca a calcio pupazzi. Si dà fondo alla fantasia, ma quella si rigenera se il cuore è tranquillo.

Quando ci vediamo in videoconferenza si dicono che si mancano. Lo scrivono in ogni testo. Se lo concedono perché in classe nostra la disabilità ha un posto in mezzo a loro e permette la debolezza, il che è di grande aiuto, una grande risorsa.

Questo non è il tempo lento della lumaca, della ricerca del senso, in cui fanno le cose con calma, in cui i nostri bambini possono riprendere il contatto con loro stessi. In cui non ci sono richieste di prestazioni, mamma e papà sono rilassati e magari si può guardare un tramonto, passeggiare sulla spiaggia, leggere una storia.

Non prendiamoli e prendiamoci in giro.

Questo è un tempo sospeso, in cui il dentro e il fuori si confondono, in cui il mondo è in agitazione, gli adulti che hanno intorno sono preoccupati di perdere il lavoro o stanno cercando di mantenerlo, in cui ci sono dei nonni da soli, lontani o malati. Spariti da un giorno all’altro come tutto il resto.

È il tempo della solitudine.

È il tempo degli adulti, ancora una volta. Sarà un guaio se qualcuno non penserà a loro nella fase due. Se non gli parlerà.

Non sarà un problema se perderanno qualche mese di scuola, ma sarà un guaio se nessuno non darà valore a quel: sto molto male o addirittura non lo permetterà.

I bambini non hanno voce, bisogna che qualcuno urli per loro. Che qualcuno, da qualche parte, costruisca una carrucola e faccia in modo di tirarli fuori, magari piano piano, dal tempo sospeso in cui li abbiamo confinati e in cui li stiamo abbandonando.

Penny

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