Quando pensiamo al mostro, quando raccontiamo ai bambini e alle bambine di lui, è sempre qualcuno che arriva dal folto del bosco, qualcuno che non ha niente a che fare con noi. È qualcuno che ci prende alla sprovvista e ci sconvolge.

Forse per questo non riusciamo mai a prenderlo, perché raccontiamo solo una parte della verità.

Il mostro, quello che ci fa male, quello che ci ferisce il corpo e l’anima, spesso appartiene al luogo sacro della famiglia.

E, allora, come facciamo a raccontare questa storia? Come facciamo a mettere su carta e incidere con inchiostro nero la verità? Ovvero che il mostro, spesso, è un marito, un compagno, un padre, qualcuno che dice di amarti? Come facciamo a raccontare ai bambini, alle bambine ai ragazzi alle ragazze che nel luogo considerato di maggiore protezione, troveranno l’orco?

Difficile trovare le parole per raccontare, infatti, spesso, i giornalisti provano congetture linguistiche per assolvere il carnefice.

È notizia di pochi giorni fa la morte di una bambina di 9 anni in Portogallo torturata con l’acqua calda, prima ad un piede poi alle gambe, schiaffeggiata, strangolata e uccisa dal padre.

Lo stesso padre che l’ha guardata morire per ore senza provare un minimo di pietà.

Un’altra, in India, stessa età, violentata dal “branco famigliare” per gelosia. Il mondo dei mostri non ha confini.

Ci sono storie di bambine torturate e violentate che non si vogliono sentire, fanno male, ci riempiono di angoscia.

Eppure, qualcuno, deve raccontarle, portarle alla luce, fare in modo che si narri la storia, quella reale, con l’unico scopo di proteggere altre vittime. Con lo scopo di dissotterrare i silenzi e le complicità, smuovere la terra e cambiare qualcosa.

Katia M, nome di fantasia, lo ha fatto. Lo ha fatto attraverso le parole di un libro, da leggere con calma, su cui soffermarsi e riflettere. Lo ha fatto quando era già una donna, una madre. Ha promesso che avrebbe protetto la sua bambina come lei non è stata protetta. Ha preso carta e penna e ha iniziato a raccontare di suo padre.

È dovuta tornare indietro, soffrire ancora, scoperchiare ricordi, raccontare di quella bambina di quattro anni e di quel corpo pesante sul suo.

“Non la voglio fare più quella cosa, papà!” gli ha detto un giorno sottovoce per non farsi sentire. Invece, lui lo rifarà più e più volte, per tutta l’infanzia e l’adolescenza.

È una storia difficile da essere letta, perché ci ricorda dove può spingersi la violenza sulle donne e ci ricorda il limite sottile e labile all’interno delle nostre vite.

Ka lo ha fatto, con coraggio, è tornata indietro, ha ricostruito una narrazione non menzognera, perché è di questo che abbiamo bisogno: della verità. Anche se fa male.

Abbiamo bisogno di chiamare i mostri con il loro nome: padri, mariti, ex fidanzati. Abbiamo bisogno di scardinare la violenza e portarla alla luce, dirci che alcuni uomini compiono atti terribili, così terribili da essere nascosti.

Questa storia, nonostante tutto, è una storia di speranza.

Katia non è solo una vittima ma è una sopravvissuta, oggi una donna felice. Sì, perché dalla violenza si può uscire, magari non da sole, ma si può uscire.

Nella prefazione, Patrizia Romito, docente di Psicologia sociale presso l’Università di Trieste e autrice di numerosi libri sulla violenza contro le donne, dice, in riferimento all’autrice, una cosa per me importantissima, Katia ha saputo commuoverci, informarci, ma, soprattutto metterci in collera.

Metterci in collera, non assuefarsi alla violenza e alle discriminazioni di genere da cui scaturisce. Non stare a guardare, non essere complici.

Metterci in collera, affinché nessuna bambina, nessuna ragazza, nessuna donna debba passare quello che ha passato Katia.

Penny

Leggete il libro e compratelo, per lei e per tutte noi.

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