Gli uomini non parlano di sentimenti, lo fanno poco con le loro donne, non lo fanno tra di loro e se se lo concedono è perché sono su un palco o una cattedra come esperti.

La materia riguarda esclusivamente il genere femminile. Quante volte avete sentito: “Sono cose da donne!”.

Ho letto che a cinque anni una bambina occupa già più tempo di un suo coetaneo sulla cura e l’accudimento. La nostra strada è tracciata, il desiderio del principe azzurro che ci salva al limite da un lavoro non soddisfacente, mal retribuito, di seconda scelta o dalla disoccupazione.

Anche quella del mondo maschile, però, è tracciata, piena di privilegi ma anche di gabbie.

Da subito viene instillata l’idea che saranno loro a doversi fare carico della famiglia, dovranno procurarsi un buon lavoro, essere forti, e se qualcosa non funziona il fallimento è sulle loro spalle. E quel il fallimento diventa immediatamente una questione del tutto personale. Da qui la difficoltà ad essere lasciati e la paura di perdere ogni cosa.

E, siccome, non sono abituati a parlare di sentimenti, a lavorare sulle emozioni, a scinderle, e non hanno costruito “rapporti” con cui permettersi di farlo, confondono e s’incastrano dentro alla rabbia. Una rabbia che, a volte, diventa furia e violenza, a volte ricatto, a volte malattia.

Per questo dico che dovremmo parlare di affettività e relativa gestione già a scuola, perché le gabbie culturali esistono per tutti, anche per gli uomini che, se da una parte, nati e cresciuti all’interno di privilegi, non si rendono conto della differenza di genere, dall’altra sono costipati dentro ad un ruolo da cui difficilmente riescono ad uscire.

E, così, detta semplice, anche gli uomini cercano il vero amore che gli ricordi che lui è maschio, cacciatore e detentore di potere, e soprattutto, che abbia espletato il suo compito, ovvero, fatto ciò che gli è stato insegnato: procacciare cibo per la famiglia.

Ed è per questo che è incredulo e, a volte violento, ricattatorio con i figli, quando la donna di turno gli dice: non mi basta.

A quel “non mi basta”, spesso, la reazione che ne scaturisce, l’unica emozione concessa all’uomo in quanto maschio, è la rabbia.

E se in questo procacciare cibo, lui aveva altri desideri e aspirazioni, chi se ne importa, tra l’altro probabilmente non saprebbe riconoscerli quei desideri, perché, con i bambini e poi i ragazzi, difficilmente non si parla appunto mai di emozioni o sentimenti.

Se ci sono dei problemi, solitamente, sono le donne che si rivolgono agli specialisti o alle specialiste ( psicologi-psicologhe, psicoterapeuti-psicoterapiste…) e sono sempre le ragazze, ad esempio, per l’approccio sessuale magari incerto, ad andare dal ginecologo, ginecologa o dalla sessuologa o sessuologo, anche se i problemi riguardano lui. Spesso, sono le mogli ad andare dal medico a snocciolare i problemi del marito.

Un circolo vizioso che fa molto male a tutti, uomini e donne.

Forse, potremmo partire da qui, anche se per alcune di noi la consapevolezza sulla nostra sottomissione è ancora inesistente, dallo sguardo sul maschile.

Siamo noi a dover denunciare, a sottrarci alla violenza ma un lavoro enorme va fatto sulla cultura del maschile.

Se i ruoli sociali fossero più equilibrati, se la corresponsabilità sulla famiglia, nell’economia, nella politica, fosse equamente distribuita, forse morirebbero meno donne e i loro figli, forse meno donne sarebbero dentro a relazioni incastranti.

Forse sarebbero più libere ma anche gli uomini sarebbero più liberi.

Prevaricherebbero meno, saprebbero affrontare la frustrazione di una relazione conclusa, sarebbero meno soli, saprebbero trattare la materia dei sentimenti, meno ingabbiati, più capaci di “felicità”.

Noi donne dobbiamo lavorare sulla nostra consapevolezza, ma quanto devono lavorare gli uomini su se stessi?

Forse, qualcuno, dovrebbe iniziare a dirglielo.

Penny

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