Da piccola pensavo di non saper fare nulla e mi sono trascinata questa zavorra per molto tempo. Ancora adesso quando ho dei riconoscimenti, la prima cosa che penso, la prima abitudine a cui torno, è la mia incapacità.

Non avevo particolari abilità, non eccellevo a scuola, facevo davvero fatica a concentrarmi, ero grassoccia e molto alta. Ero simpatica e generosa ma a quanto pare, le qualità legate all’empatia, in una società come la nostra, non sono annoverate come risorse, non equiparabili al “saper fare”.

Quasi tutti gli adulti che ho incontrato per strada hanno confermato le teorie che avevo su di me e hanno spinto il mio Io sempre più in basso.

A vent’anni sono crollata. Sono crollata, nel senso che mi sono arrivati come un fulmine al ciel sereno gli attacchi di panico, chi li ha provati sa qual è il senso di morte che ti avvolge.

È iniziata la terapia, lunga e difficile. In quel periodo non ho mai preso niente, il lavoro era quello di scavare in profondità e andare all’origine.

Salivo sugli autobus e scendevo in preda ad un attacco. Restavo viva, ma la sensazione ogni volta, era devastante. Come se questo mostro si portasse via qualcosa di me e lo facesse per sempre.

Ho iniziato a ricostruire, tagliando a fatica ponti, il che vuol dire che ho dovuto andare a ritroso e cercare parole buone. Ne ho trovate poche.

Gli adulti, educatori e insegnanti, che mi hanno guardato davvero non riempiono le dita di una mano.

Mia madre, in tutta questa storia, è stata l’unica a spingere affinché continuassi gli studi con determinazione, nonostante, ad esempio, alla fine della terza media i professori mi avrebbero avviato al mondo lavorativo.

Ricordo la sua rabbia, in quel momento, ora capisco che è stata la mia salvezza.

Quella scuola che lei aveva visto per me e che io non vedevo ancora mi ha portato alla solidità che ho oggi. Devo a lei, le magistrali, il corso parauniversitario ortofrenico, il superamento di un concorso nazionale per insegnante.

Lei che mi diceva: “Fallo, studia” e lottava per me contro un sistema che mi avrebbe fermato, perché non ero all’altezza.

Lei, che dopo vent’anni nella stessa ditta, a cui ha dato la vita ( c’è una foto a pochi giorni della mia nascita: io nella culla vicino alla sua scrivania mentre lavora) è stata lasciata a casa in cinque minuti. Lei lo sapeva quanto per una donna era importante l’autonomia, lei che in attimo si era ritrovata a quarant’anni, con quello che comporta, a dover ricominciare.

Questo per dire che siamo noi, madri, a dover sollevare i nostri figli e figlie dal senso di inadeguatezza che la società competitiva fomenta. Il che non vuol dire giustificare i nostri pargoli, ma scovare i punti di forza anche se nessuno li vede e aiutarli a lavorare su quelli.

Tante volte ho pensato a come sarebbe stata la mia vita con parole piene come: ce la farai, non ti scoraggiare, cerca di capire cosa ti interessa, invece di parole vuote: guarda lei come è brava, forse devi abbassare il tiro, devi impegnarti di più, sei svogliata…

Più mi dicevano che ero svogliata più quell’etichetta me la sono portata addosso.

La mia vita è stata condizionata da quelle parole e appena iniziata l’età adulta, ho cercato sempre persone che, in qualche modo, confermassero l’unica idea che conoscevo di me. Se gli altri mi dicevano che non ero capace perché avrei dovuto credere diverso?

Mi sono cercata un uomo che confermasse quell’abitudine e mi sono sposata, nel frattempo, però, quella conquista del ruolo come insegnante era una casella andata al suo posto. Avevo un lavoro mio e un’indipendenza economica ma non ancora emotiva.

Piano piano la psicoterapia ha dato i suoi frutti, mi sono ricostruita in una stanza con le pareti di cui non ricordo il colore, la stanza negli anni era sempre la stessa, io dentro procedevo e recuperavo una per una quelle parole.

Nel frattempo ho fatto due figlie e mi sono separata. Mi sono comprata da sola una micro-casa, solidificando i miei contorni. Non ho ancora la macchina, ma è un mio obiettivo), ho comprato, però, una moto usata che amo. Ho scoperto la scrittura a terapia finita e porto un Xanax in borsetta per ogni evenienza, da usare se quegli attacchi tornassero improvvisi.

Non prendo quasi mai quelle pastiglie ( a parte quando sono andata in Tribunale per rivendicare gli assegni di mantenimento per le mie figlie o in momenti particolari), la scatola di Xanax scade ma io rinnovo la ricetta.

Non mi vergogno di dirlo, non più, ho compreso che per sconfiggere quel senso di inadeguatezza, il primo passo è quello di narrare quell’angoscia, inoltre, se avessi capito che alcune strategie aiutano a stare meglio lo avrei fatto anche quando ero appena una ragazza, non siamo nati per soffrire ma per essere felici e fare qualcosa di buono dentro alle nostre esistenze.

La mia vita è fatta di una serie di compromessi per smantellare quell’abitudine all’inadeguatezza. Credevo di essere l’unica a stare così male, invece, ho scoperto che il malessere si nasconde come fosse una vergogna.

Ho imparato che la vita non si percorre su un filo dritto drittissimo ma quel filo spesso ondeggia, a volte cadiamo e dobbiamo riprovare a stare in equilibrio. È tutto normale, anche il Xanax nella borsa all’occorrenza.

Ognuno di noi ha diritto a trovare i suoi compromessi anche quando la felicità manifesta di altri ci viene sventolata sulla faccia.

Non so, stamattina, dove volessi arrivare con questo discorso, forse, volevo dirvi di credere in voi, anche quando il mondo non lo fa e di aiutare i vostri figli e le vostre figlie a smontare le abitudini di incapacità.

In questo ci vuole coraggio, nel continuare a camminare, magari con una pastiglietta in borsa e a riconoscersi quel malessere di fronte a qualcuno, una psicologa, una pedagogista ( nel caso dei figli), una psicoterapeuta che ci aiuti a trovare i nostri compromessi.

La mia psicoterapia è finita da tempo, ma io so che ogni tanto, simbolicamente, ho bisogno di tornare in quella stanza e ricordarmi la strada. Ho bisogno di smontare ancora quell’abitudine all’incapacità che mi hanno appiccicato come un distintivo perché non rientravo nei canoni della bravura. Lo faccio ogni volta, ogni volta ondeggio e risalgo sul filo.

Però, amiche mie, risalgo sempre. Mi devo ricordare questo e dovete farlo anche voi, quando vi sentite sbagliate. Fottetevene di chi vi racconta che non cade mai o non ha pastigliette nella borsa. Non dovete cercare di raggiungere nessuno o essere come altri vi chiedono, ma risalire, ogni volta su quel filo, perché, quando ci siete con consapevolezza, quando vi volete bene, quando date un senso più ampio alla vostra esistenza riconoscendole dignità, l’abitudine all’inadeguatezza sparisce.

E voi siete voi.

E non c’è altro da dire.

Penny

7 comments on “Ho sempre una pastiglietta di Xanax in borsa. Questo è uno dei compromessi per sconfiggere l’abitudine all’inadeguatezza. Io”

  1. Grazie cara Penny, anch’io cerco di fregarmene quando sento storie di chi è perfetta e non conosce alcun cedimento!
    Ho smesso di sentirmi inadeguata, mi accetto per quello che sono. Sono alla continua ricerca di ME….e più mi voglio bene e più mi ritrovo…. i miei limiti li accolgo e si trasformano in punti di forza.
    Cara Penny sei un importante punto di riferimento….sei il mio appuntamento giornaliero da più di tre anni…la tua storia è un po’ la mia storia!
    Grazie ancora!
    Un abbraccio Lucy22

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