Settimane di valutazione.

Le linee guida sono cambiate, niente più voti. Vengono introdotti i livelli e può essere inserita l’autovalutazione, a mio avviso, unico strumento utile alla costruzione del sapere. Viene rimessa al centro la valutazione formativa come occasione per documentare lo sviluppo dell’identità personale. Evviva!

L’identità personale è fatta di competenze, conoscenze, ma non solo, anche la storia che ci portiamo dietro costituisce il nostro essere.

Sospiro di sollievo da parte di tutti quei o quelle docenti che come me non hanno mai creduto che un voto potesse restituire qualcosa agli alunni e alle loro famiglie.

Nonostante ciò, nonostante i miei 25 anni d’insegnamento, nonostante sia molto felice di questo cambiamento, trovo la valutazione un bisogno dei “grandi” per classificare quello che non è e non sarà mai classificabile, ovvero il percorso dei nostri bambini e delle nostre bambine.

Perché, nonostante cerchi di non farmi condizionare, nonostante ce la metta tutta per non paragonare i livelli dei miei alunni e delle mie alunne, mi ritrovo a dover riconoscere con sincerità che i livelli più bassi, quasi sempre, sono quelli dei bambini con fragilità sociale ed economica e sono sicura che se analizzassimo ogni classe delle nostre scuole la fotografia sarebbe la stessa.

Che cosa ci sfugge?

Pretendiamo di rendere oggettivo qualcosa che oggettivo non potrà mai esserlo, perché non c’è nulla di così soggettivo come l’esperienza scolastica che è fatta di agenti umani, di una relazione che intercorre tra questi e di una storia personale.

Allora, penso, che nonostante ci siano stati dei cambiamenti positivi, valutare per me rimane un atto che non mi appartiene, che cerco di fare al meglio, un atto piuttosto classista. Provo a spiegarmi.

Ciò che importa e dovrebbe importare ai nostri alunni e alle nostre alunne è ciò che sanno fare, partire da lì, per stabilire quali possano essere le azioni di miglioramento rispetto a ciò che non hanno ancora imparato. Questo dovrebbe valere anche per le loro famiglie. Conoscere i propri figlie e aiutarli ad imparare capendo che i tempi e i modi sono del tutto personali.

Questo non si può definire attraverso una scheda, ma attraverso azioni quotidiane e dialogo con gli stessi bambini che diventano così agenti del loro percorso all’interno dell’esperienza scolastica.

Mentre compilo le schede di valutazione cerco parole che non esistono tra i vari livelli, avanzato, intermedio, base(?) , in via di acquisizione, per scrivere la cosa giusta, per definire “pezzetti” nel modo giusto, sapendo che è impossibile e sapendo che chi non ha l’aiuto necessario è destinato, prima o poi, alla fuori-uscita dell’istituzione scolastica.

Ad ogni modo non dimentico come insegnante che per gli obiettivi non raggiunti o per gli apprendimenti in via di prima acquisizione la scuola deve attivare specifiche strategie di miglioramento, non fermarsi alla valutazione e lavarsene le mani.

Quindi non basta dire: non lo sa fare, ma noi docenti dobbiamo occuparci di quel non lo sa fare che non può e non deve rimanere un problema dei bambini, delle bambine e delle loro famiglie.

La valutazione non può e non deve essere fine a se stessa.

Il mio cuore forse sbaglia, ma credo che la valutazione rimanga un bisogno della nostra società competitiva per assolversi e scaricare il barile. Come ho già scritto, nella scuola, spesso, le difficoltà sociali ed economiche incidono sulla valutazione, anche se amiamo raccontarci il contrario, fingendo di poter essere davvero oggettivi. Nella scuola chi ha difficoltà rimane indietro, è quasi sempre fottuto. Per non parlare delle poche risorse spese per i bambini e le bambine disabili.

Quello che conta, per quanto mi riguarda, sono le parole spese alla fine di un compito con i nostri alunni e le nostre alunne, le parole che sanno spiegare come superare le difficoltà, quali strategie utilizzare per migliorarsi. Parole e relazioni che dovrebbero essere spese anche con le famiglie.

L’autovalutazione, per me, rimane la sola possibilità di arricchimento per non far subire la scuola ma farla vivere, ad esempio i miei alunni firmano le loro verifiche, come azione per sentirsi partecipi. Chi non ha nessuno che li segue i compiti si recuperano a scuola, quello é lo spazio di cura.

Sapete da chi mi arrivano i messaggi su whatsapp il sabato e la domenica perché non si riescono ad accedere alle piattaforme? Perché non hanno capito un compito? I bambini più poveri, i bambini stranieri. Gli altri hanno una mamma o un papà che li aiuta a trovare la strada. Ecco l’altra faccia della dad.

Mi piacerebbe che i bambini e le bambine, nessuno escluso, potessero cogliersi in cammino dentro alla scuola, in movimento, in crescita e non racchiusi, rassicurati o perduti, dentro ad un livello, anche se riguarda degli obiettivi specifici.

Tutte le volte che chiudiamo gli scrutini provo una grande amarezza e un grande dolore e so in cuor mio di non aver trovato le parole giuste, per non essere stata all’altezza dei mio compito, che è quello di insegnare, ovvero facilitare l’apprendimento e non di valutare, se non me stessa.

Penny

Se volete cercarmi questi sono i link del mio romanzo e del mio albo illustrato. In uscita a giugno un libro di letteratura per l’infanzia.

http://old.giunti.it/libri/narrativa/il-matrimonio-di-mia-sorella/

https://www.ragazzimondadori.it/libri/ai-figli-ci-sono-cose-da-dire-cinzia-pennati/

Rispondi