Sono una maestra. Insegno da oltre vent’anni nella scuola pubblica.

Il mio lavoro mi piace, ma vorrei mettere in chiaro che non è una missione né una vocazione.

Ho studiato tanto per diventare insegnante, specializzata nella scuola magistrale ortofrenica, ho superato un concorso nazionale e continuo a studiare, perché i bambini e le bambine cambiano, perché si scoprono nuove metodologie, perché l’apprendimento è un processo in perenne mutamento.

Fino a quando il nostro lavoro sarà considerato una missione o una vocazione non verrà preso sul serio.

Siamo i più sottopagati d’Europa ( intanto è una vocazione…) a parità di titoli, siamo pagati meno anche dei colleghi della pubblica amministrazione ( intanto la nostra è una missione…).

No, il nostro è un lavoro legato alla cura ed è per questo che andrebbe retribuito di più. Ed è per questo che rimane un ripiego per alcuni e non scelto da altri, magari meritevoli e capaci, per questo non è un lavoro scelto dagli uomini.

Ed è per questo che l’insegnamento non viene valorizzato economicamente e socialmente, perché nel nostro sistema solo le materie “maschio” (non umanistiche) sono considerate produttive e quindi legate alla competenza.

Un insegnante studia tanto quando un ingegnere o un economista, con due differenze: l’obbligo di formazione continua, e la “materia” umana.

Allora, mi dovete spiegare perché a un insegnante chiediamo una vocazione invece di riconoscerne la competenza.

Purtroppo, nel nostro Paese, la cura è legata al “femminile” e il femminile è sottopagato e sfruttato. Il femminile, ovvero il materno, è dote, non competenza, e questa è una grande enorme frode, per noi e per gli studenti e le studentesse che abitano una scuola sempre più povera.

È competenza la capacità relazionale che non si improvvisa ma ha bisogno di applicazione e studio. È competenza non solo conoscere una disciplina, ma soprattutto, saperla trasmettere.

È competenza la materia pedagogica che un insegnante applica e studia fino alla fine della sua carriera.

È competenza la capacità di mediazione, perché un insegnante ha a che fare con più agenti: la dirigenza, le famiglie, i servizi sul territorio, l’utenza…

Mi sento umiliata tutte le volte che parlano di missione o di vocazione. E quando obietto mi sento dire: “Sì, ma all’insegnamento bisogna esserci portati”.

“Perché, per fare l’ingegnere no? Non ci vuole un’attitudine?”.

E, allora, perché il suo lavoro non è considerato una missione e non gli viene chiesto di farlo in termini volontaristici come viene chiesto costantemente ad un insegnante?

Non me ne vogliano le/gli ingegneri, sono solo uno strumento per far capire quanto anche il pensiero comune permetta al sistema ( quindi al Ministero e ai governi) di rimanere immutato e di non investire nella scuola.

Una scuola con altissimi tassi di precariato e chi è precario viene licenziato, spesso, il giorno degli scrutini. Chi è precario, investe quello che può, e non per volontà ma perché prima di capire come funziona una scuola sta già lavorando in un’altra.

Una scuola pubblica che non ha finanziamenti per i progetti che funzionano, che non possono cadere dall’alto come.

Una scuola pubblica che ha finanziamenti solo per la tecnologia. Il ministro mi deve spiegare cosa se ne fa un bambino/a di tutta la mia innovazione tecnologica quando a casa sua madre deve alzarsi alle 4 del mattino per un lavoro sottopagato, quando non ha una connessione Wi-Fi, quando non ha niente di niente?

Una scuola pubblica che chiede ai suoi insegnanti di essere burocrati, di sorvegliare perché manca il personale, di compilare papiri e papiri se si vuole organizzare un’uscita didattica.

Una scuola pubblica per cui la cultura, visite a mostre, teatro, musei, ha un costo così alto da essere inaccessibile.

Una scuola pubblica che non ha compresenze, per cui ogni docente ha 25 alunni/e da formare tra cui studenti con Dsa e Bes ( che ricordo non hanno aiuti “umani” se non strumenti).

Come genitore, pretendo insegnanti competenti non missionari. Pretendo insegnanti capaci, perché l’umanità è preziosa e la produzione è e deve essere considerata in termini di investimenti nel futuro.

E lì pretendo nel pubblico visto che credo nell’uguaglianza di opportunità e pago le tasse.

Come insegnante, pretendo una dignità che non mi è mai stata riconosciuta. Nel nostro Paese vale più un prodotto qualsiasi, di un studente o una studentessa.

Ma i nostri studenti sono progetti di speranza per un mondo più equo, dare dignità agli insegnanti, riconoscergli competenza, vuol dire darla ad ognuno/a di loro.

Vuol dire credere che la formazione dei nostri figli/e sia al centro dell’agenda politica.

Prendersi cura della scuola e di chi la tiene in piedi, in termini di miglioramento di risorse e stipendiale, vuol dire non far crepare il futuro velocemente.

Penny ♥️

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1 comment on “Fare l’insegnante non è una missione ma un lavoro. Necessità di dignità.”

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