Parto dal presupposto che mi piace dare il nome alle cose e dal fatto che mi sono sempre sentita inadeguata, come alunna, intendo, almeno fino alla seconda superiore.

Poi le cose sono cambiate ma c’è voluto tempo e molta dedizione.

Parto dal fatto che non ho il senso dell’orientamento, Google Maps è un oggetto ignoto. Un giorno sono stata due ore sul piazzale della stazione a Milano cercando di seguire quella benedetta freccia, solo che lei girava in tondo con me, alla fine, ho chiesto a un paio di persone e solo così sono riemersa.

Non riesco a memorizzare l’inglese, ho difficoltà nella pronuncia, le mie colleghe mi prendono in giro ma io, a volte, ci soffro. La logica è un problema e non è un gioco di parole. Non memorizzo, se non con molta difficoltà. Devo concentrarmi un attimo per discernere la destra dalla sinistra.

Le parole che ricordo su di me girano intorno al “non può farcela“, “è svogliata“, “non si impegna abbastanza“.

Ricordo ore a fare i compiti e la frustrazione di dimenticare ciò che avevo letto.

Parto dal presupposto che ho due figlie con problemi di apprendimento: una è discalculica con una dislessia compensata, l’altra disortografia.

Insomma, l’altro ieri, ho preso il mio motorino e sotto una pioggia fitta sono andata a farmi somministrare le prove per accertare o verificare un eventuale disturbo.

“Perché lo fai?” mi hanno chiesto gli amici. “Sì, insomma, alla tua età a cosa ti serve?”.
A dare un nome alle cose, appunto.
“E dopo che lo sai?”.
E dopo che lo so, qualcosa succederà, magari metterò di tasselli, magari mi interrogherò su altro.

Credo sia importante conoscersi e sapere come funzioniamo e non smettere di farlo neanche quando siamo grandi.

Intanto ho capito come si sente un bambino di fronte a qualcosa che non comprende pienamente, come si percepisce inadeguato di fronte al sentire confuso.

“Però, un tempo tutti questi problemi non c’erano…” è la frase tipica che ti senti dire come insegnante.

Infatti, si progredisce. Le ricerche vanno avanti, le scoperte pure. Non a caso la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rigths of the Child – CRC) è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite solo il nel 1989, e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991 con la legge n. 176, quindi è materia recente.

È materia recenti interrogarsi sui bambini sotto tutti i punti di vista.

Prima c’erano le punizioni corporali ed erano ritenute legittime come metodo coercitivo, prima ( chi viene dal Sud lo sa bene) i meridionali stavano agli ultimi banchi.

Prima di Don Milani chi rimaneva indietro non aveva nessuna possibilità e, caso strano, erano i meno abbienti ad avere il cappello da asino.

Oggi, grazie a Dio, si cerca di capire perché un bambino non apprende e quali sono i suoi modi di funzionare.

Non è vero che diagnosticare un disturbo di apprendimento vuol dire facilitare la strada, vuol dire dare a un bambino la possibilità di imparare come gli altri, vuol dire approfondire su di lui, non semplificare.

Vuol dire cercare di “individualizzare” gli apprendimenti. È l’insegnamento che deve misurarsi sul bambino e sui ragazzi e non viceversa.

Comunque, questo per dire che tante storie di fallimenti scolastici, (che, a volte, si traducono in fallimenti personali), derivano dall’incapacità di interrogarsi sui bambini e sugli adolescenti.

Non semplifichiamo quando viene diagnosticato un disturbo, ma quando pensiamo che una scuola rigida e meritocratica sia l’unica soluzione e che solo i meritevoli possano andare avanti.

Mi sarebbe piaciuto essere una bambina a cui non venivano tranciate le gambe e se non fosse stata per la caparbietà di mia madre probabilmente mi sarei persa per strada.

Mi sarebbe piaciuto poter lavorare sui miei difetti, poter usare degli strumenti per compensare le mie cadute.

Mi sarebbe piaciuto che gli insegnanti si interrogassero perché alcune cose dentro di me non funzionavano.

Mi sarebbe piaciuto e sono sicura che avrei sofferto meno.

Ora mi guardo e cerco di fare pace con tutte quelle parti di me che sono un po’ rotte.

Cerco strumenti e strade alternative per procedere comunque.

Provo a non arrendermi a quel giudizio che ha radici antiche, che mi hai reso fragile e ha fatto in modo che questa fragilità condizionasse le mie scelte, anche quelle relazionali.

Faccio i conti con questa mia fragilità e i buchi neri che mi porto dietro, ma non mi condanno più, invece, cerco di interrogarmi anche se ho quasi cinquant’anni.

Insomma provo a girare intorno a me stessa con curiosità, quella curiosità necessaria per volersi un po’ di bene. La stessa che dovremmo avere nei confronti dei nostri bambini e dei nostri ragazzi.

Se proviamo a comprenderli non spianiamo la strada, approfondiamo le possibilità di più strade, il che è molto diverso.

Vale per loro e per noi.

Penny

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