Ogni tanto leggo questa frase scritta da donne: i miei figli sono il mio capolavoro.

Difficilmente agli uomini viene chiesto di parlare di figli, difficilmente parlano di figli. Parlano di loro stessi, del lavoro, degli hobby, di politica.

Ne scrivo un’altra: i figli sono il mio tutto. Sono il mio orgoglio.

A queste semplici frasi buttate qua e là, c’è un sotto pensiero, inconscio o meno, ed è questo: anche se non sono una donna felice, anche se non mi sono realizzata del tutto, se non sto bene, se ho una relazione non paritaria, però, ho i miei figli…che sono un capolavoro, il mio orgoglio, sono tutto. Loro sì che mi fanno delle soddisfazioni.

Ma davvero è sufficiente? Davvero sono il nostro tutto? E a chi giova questo ragionamento?

Queste frasi che scriviamo o troviamo sui social e ci diciamo tra di noi, gongolandoci anche un po’, in realtà non fanno altro che sostenere un sistema di sottomissione del femminile.

Insomma, lo stereotipo culturale a cui aderiamo è: siamo realizzate solo se procreiamo. Siamo complete solo se diamo la vita. Quindi, in poche parole, manteniamo una società per cui il lavoro di cura è scontato e sommerso.

Pensiamo solo al congedo di paternità: 10 giorni lavorativi da usufruire nei primi 5 mesi dalla nascita del figlio, anche non consecutivi, o dall’ingresso in famiglia del piccolo nel caso di adozione…”

10 giorni anche non consecutivi nei primi 5 mesi! Ovvero in quella fase necessaria di attaccamento, il padre può stare con il figlio 10 giorni! Questo ce la dice lunga di come il carico di cura sia sbilanciato. In termini pratici cosa vuol dire: lavori precari per le donne, disoccupazione femminile, interruzione lavorativa, dipendenza economica ed emotiva.

I figli sono delle donne, tranne quando si separano, improvvisamente il carico deve essere condiviso e diviso anche se fino ad allora lo sbilanciamento è stato totale ( ma questa è un’ altra storia).

Ad ogni modo la donna si occupa dei pargoli, la precarietà femminile non si arresta, mentre l’uomo procede e riempie spazi decisionali.

Se le donne incrociassero le braccia il sistema sociale crollerebbe.

La nostra vita deve avere un valore al di là della maternità e dell’amore che proviamo per i nostri figli. Come lo è per gli uomini.

Dobbiamo cambiare il nostro linguaggio perché cambiarlo vuol dire modificare anche la cultura. Essere consapevoli che certi stereotipi sono comodi al sistema come quello di farci pensare indispensabili.

Ai figli si può voler bene e questo è un dato di fatto, si possono amare alla follia, possono essere la luce dei nostri occhi ma non devono essere mai l’unica luce.

Non devono essere la nostra realizzazione né compensare delle mancanze. Non devono essere il capolavoro di nessuno, che essere un capolavoro vuol dire avere un carico sulla schiena inimmaginabile.

Non ci fa bene dirci quanto facciamo, quanto ci prodighiamo per loro, quanto rinunciamo. Ecco, non ci fa bene rinunciare e non fa bene ai nostri figli. Fa bene al sistema misogino che conserva il potere.

Tenere il punto sulla nostra esigenze, essere il perno della nostra esistenza, vuol dire non essere colluse con un sistema che-con la scusa della maternità- ci vuole fragili.

Vuol dire amarci e amare i nostri figli, produrre cambiamento, che è molto meglio di creare capolavori.

Vi abbraccio.

Penny ♥️

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