Di ritorno dalla Corsica siamo andati a prendere il figlio del mio compagno all’aeroporto. Tornava da una vacanza studio di tre settimane in Irlanda.

Lui è un bravo ragazzo, di quelli che riescono bene in tutto. Sa l’inglese alla perfezione, un ottimo atleta, è curioso e studia con buoni risultati. É davvero in gamba. Scherzando gli dico che sono la sua matrigna cattiva, e lui se la ride.

Io lo adoro, ma non sarei sincera se, ogni tanto, laggiù in fondo allo stomaco, non dicessi che mi viene una sorta di “invidia”, che invidia non è, e non lo paragonassi (passatemi il termine) alle mie girls e alla loro vita complicata, complicatissima.

D’altronde la sua storia familiare è molto diversa, ha un padre e una madre che si occupano di lui e nonostante il dolore della separazione hanno trovato il modo per camminare su un terreno comune. Non so se è solo questo, o forse è una questione di geni, visto che i miei devono essere un po’ difettosi.

Comunque, gli aeroporti mi piacciono da matti e io mi sono piazzata davanti agli arrivi. Ovviamente non posso non pensare al Natale, al film con cui ho un appuntamento fisso, Love Actually, ai pianti che mi faccio, contenta di farmeli. Agli abbracci.

Osservo gli sguardi di chi arriva, gli occhi che cercano altri occhi, e quando li vedono si illuminano. I gesti impacciati di alcuni o gli slanci di affetto di altri. Penso che potrei stare seduta lì e scrivere un romanzo, inventando storie e intrecci.

Mi  faccio dei film, seguendo fili logici tutti miei; il mio compagno non riesce a star seduto, va avanti e indietro, emozionato di rivedere suo figlio dopo tre settimane. E io provo una tenerezza infinita.

Guardo una donna bellissima che aspetta. I capelli rossi, magra, elegante. Penso che vorrei essere lei. Un attimo solo, e sapere come si sta in un corpo perfetto.

Un uomo abbraccia una donna anziana, forse è la madre. Un cane corre incontro a una bambina che si fa leccare e leccare fino a cadere per terra.

Un senzatetto raccoglie ogni pezzettino di carta che trova sul pavimento e lo butta nel cestino come se quella fosse casa sua. Ma forse lo è.

Scorgo una ragazza con un cartello con scritto “Benvenuta Olinda” e aspetto che questa Olinda arrivi per vedere chi porta un nome così. Inutile dirvi che vorrei sapere tutto di lei.

Vedo una coppia di genitori con gli occhialoni grandi fosforescenti di quelli che si usano a Carnevale. Le porte si aprono, esce un ragazzo, sedici anni circa, loro gli sorridono e fanno i pagliacci, lui li saluta appena, un cenno e tira dritto. É chiaro che si sta vergognando da matti di suo padre e sua madre che giocano per lui a fare i buffoni. Ma forse in cuor suo è felice.

Ne vedo un altro va incontro ai suoi. Anche qui un debole ciao. La madre lo afferra mentre lui sta già proseguendo, come se quella non fosse la donna che lo ha tenuto in pancia per nove mesi. Lo tira a sé, lo abbraccia stretto, gli dice: “Saluta tua sorella” e lui tira un buffetto sulla testa a una bambina con le trecce. Il padre guarda da lontano. Impacciato anche lui, muore dalla voglia di salutare suo figlio, ma non sa dove mettere le mani, così è la moglie che li prende entrambi e li avvicina.

Penso a quanto siamo diversi. A come i corpi abbiano bisogno di vicinanza.

Poche ragazze che tornano. E mi chiedo perché. Ma la risosta rimane nell’aria, le porte si aprono di nuovo, arriva il figlio del mio compagno e siamo presi anche noi dai festeggiamenti.

Si abbracciano un po’ imbarazzati, quell’imbarazzo tutto maschile. Il mio compagno lo avvicina a sé e gli schiocca un bacio sulla testa. É felice.

É buffo pensare che quell’uomo si senta ancora in colpa. É buffo pensare che ci sia un padre in grado di essere tale e non lo sia per le mie figlie.

Pensieri che si accavallano e ronzano come mosche. Che servono a poco.

Esco dall’aeroporto e penso che ogni tanto dovremmo farci una capatina. Soprattutto quando le giornate sono nere e il cuore ha bisogno di sostegno.

Metterci lì qualche ora, e guardare come sappiamo ancora volerci bene. Anche solo per un attimo. Perché, a volte, è proprio quell’attimo che non sappiamo ritrovare. Presi dalla vita e dalle sue  brutture.

Come gli abbracci possano rompere gli argini, rimettere a posto le cose ed eliminare le distanze. Come ci manchiamo quando siamo lontani e dovremmo mancarci anche quando stiamo insieme.

Perché niente può essere più vero di un ritorno a casa. Qualunque essa sia. Un luogo, una famiglia, un corpo.

Buona serata amici miei cari.

Penny

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