Giovedì è andata così.
La mattina ho fatto le solite cose. Sveglia alle sei. Scrittura. Colazioni. Lavatrici. Preparazione di cibi. Sistemazione di letti, camere, oggetti ecc…tutte faccende che credo conosciate bene.
Le girls a pranzo erano da sole. Il pomeriggio una doveva studiare, l’altra aveva alcuni impegni tra cui una cena degli scout a casa di un’amica.
Io mi sono dedicata a me. Come una concessione prima. Un’abitudine adesso.
Pomeriggio a scuola e corso in un centro antiviolenza che finiva intorno alle 19.00.
Al corso ci siamo confrontate su come gli stereotipi siano così intrinsechi nella nostra vita, da non renderci conto quanto la condizionino.
Di come la colpa domini ogni cosa.
Insomma, non ci occupiamo abbastanza della famiglia e, spesso, l’accettazione sociale del nostro essere, passa attraverso la dedizione alla maternità.
Quando sono uscita ho chiamato la girl grande, rimasta a casa e le ho chiesto: ” Vaschetta?”.
“E gelato sia” mi ha risposto contenta.
Come un rito che ci concediamo?.
Sono partita in sella al mio scooter, ho comprato la vaschetta e sono tornata a casa.
La girl grande mi aspettava per mangiare insieme.
Abbiamo cenato raccontandoci la nostra giornata poi, lei, è tornata a studiare. Quando verso le 22:30 è arrivata la piccola, ero già a letto.
È entrata, è andata a cambiarsi, poi si è lanciata nel lettone e mi ha detto allegra: “Mami ciao! Non ci vediamo da stamattina. Come è andata oggi?”. E mi ha dato un bacino.
Così ci siamo raccontate. Io le ho parlato della mia giornata e lei della sua. È stata ancora 10 minuti accozzata, poi ha esclamato: “Sono stanca, vado a dormire!”.
Ho passato quasi tutta la loro infanzia a sentirmi in colpa.
Il tempo ha valore, vero, ma quando i padri sono a lavorare, se sono padri “buoni”, non è che i figli li amino di meno. E questo dovrebbe valere anche per noi.
Invece, proprio per quel concetto di cura che ci inculcano da bambine, noi, ci sentiamo in colpa.
Non è il tempo che spinge il bene, è come lo si usa quel tempo. È quello che siamo con i nostri figli, è non dipendere da loro emotivamente a non renderci madri pessime.
Non la colpa, il riempire il tempo, né il controllo.
A volte è l’assenza, è lasciare che se la sbrighino. È dare loro la possibilità di sentire la nostra mancanza. È dare a noi stesse la possibilità di agire come fanno gli uomini.
Loro lavorano. Si occupano di quello quasi tutto il giorno. È un dato di fatto che non ci siano. Tornano a casa la sera e non si sentono in colpa. E se c’è il calcetto, ci infilano anche quella. O restano di più in ufficio senza colpo ferire.
Invece, noi, se siamo a lavorare abbiamo la testa a casa, nell’organizzazione dei figli. Cosa faranno? Avranno mangiato abbastanza? Staranno studiando? E mentre siamo a casa pensiamo a quello che dobbiamo ancora fare al lavoro.
Ieri pensavo a quando non ci sono. Le due si responsabilizzano e scoprono che non sono scontata. Io faccio ciò che desidero e torno a casa felice. Stanca magari, ma felice.
E loro lo sentono.
E chissà, che giorno dopo giorno non imparino ad essere donne soddisfatte, prima che madri.
Non imparino, se mai faranno un figlio, a vivere la maternità come un uomo.
E lo so che qui qualcuno avrebbe da ridire con ‘sta storia dell’istinto materno ma, a me, non mi fregano più.
Cambierei il termine e parlerei di “condizionamento” materno. Dalla bambola tra le braccia in poi ci istruiscono bene.??♀️
Altrimenti non mi spiego come mai il senso di colpa sia una prerogativa solo nostra: delle donne.
Se la cena non è pronta, ad esempio, gli uomini non si sentono in colpa, casomai si lamentano. E così funziona per il resto.
“Donna non si nasce, ma lo si diventa” dice Simon de Beauvoir. Ha ragione. E spero non me ne vogliate se aggiungo: “Madri non si nasce, ma lo si diventa”.
Non facciamo in modo che succeda che altri declinino la maternità per noi e ci dicano come dobbiamo essere madri.
O che declino il modo in cui dobbiamo stare in famiglia, la nostra famiglia ( vedi Verona e relativo congresso).
E, soprattutto, eliminiamo la colpa, che serve solo al sistema sociale per chiudere il cerchio sul disequilibrio tra i compiti di cura. Non serve a noi. E di certo ai nostri figli.
Vale di più una donna felice che una madre dedita e in colpa.
Così, l’altra sera, quando ho chiuso gli occhi, quando la casa era silente, loro dormivano tranquille, e io non c’ero stata per tutto il giorno, ho pensato che in realtà c’ero stata.
Molto di più. Presente a me stessa.
Come una narrazione nuova della maternità. Che non preveda l’esercizio della colpa, ma la realizzazione della felicità.
Penny
Di solito ti leggo senza scrivere perché riesci ad esprimere alla perfezione sentimenti ed emozioni in cui mi riconosco. Ma stavolta no. Non è solo il senso di colpa che ci impedisce di stare fuori tutto il giorno serenamente per lavoro o per altro ma è la sensazione di perderci il bello dei nostri figli.Dai primi passi alle prime cotte. Se non ci siamo non ci siamo punto. E non c’è tempo di qualità che tenga.
La mia, ovviamente, voleva essere una provocazione per sradicare un’ idea così intrinseca in noi da condizionarci spesso nelle scelte lavorative, ad esempio. Comunque lo credo, non è il tempo quantitativo ma quello qualitativo che ci permette di fare funzionare la relazione. Altrimenti dovremmo vivere 24 ore su 24 con i nostri figli per non perderci niente. Ci siamo anche nell’assenza, ci siamo se emotivamente non dipendiamo da loro e loro da noi. Posso esserci quando fa i primi passi ma sceltare ogni tre per due e loro l’ansia la percepiscono. Dipende da come siamo dentro alle cose, non dal tempo. Lo vedo con i miei alunni, ci sono madri iperpresenti e bambini persi, madri più concentrate su di sé ma “presenti” e bambini a piombo. Non so se mi sono spiegata. Un abbraccio Penny