Vi racconto una storia.
Lei e lui sono separati. I figli vivono con lei, lui non c’è mai. È latitante.
Lei si occupa di tutto.

Un sabato qualunque una delle sue figlie deve preparare due torte per una riunione degli scout di autofinanziamento a Santa Margherita.

Ovviamente, glielo dice all’ultimo minuto. La madre esce, compra gli ingredienti, fa la spesa e quando torna a casa vede la figlia che sta armeggiando con il telefono. Dopo poco lei esclama:”Cavoli! Ho preso 5 di scienze”.
“Che sarà mai” gli risponde la madre, “vedrai che se studi meglio lo recuperi in un batter d’occhio”.
“Mi sembrava fosse andata bene! Ci sono rimasta male!”.
“Lunedì quando torni a scuola controlla gli errori e guarda che cosa hai sbagliato”.

La figlia si chiude in camera immusonita. La madre prepara il pranzo, si mettono a tavola e discutono sull’organizzazione della giornata. La madre si accerta che ci sia qualche genitore che accompagni le ragazze agli scout e le riporti, dopodiché si mettono a fare le torte.

La figlia, però, è triste. Allora la madre le chiede il perché.

Lei dice che il padre, il latitante, si è scaricato un’applicazione per cui tutte le volte che viene inserito un voto sul registro elettronico dai professori gli viene comunicato.

Il padre, quello che non ha pensato al pranzo, quello che non sta preparando le torte, quello che non l’accompagna e non la riporta a casa dalla riunione scout, e non o fa mai, quello che non sa l’ultima volta che ho avuto le mestruazioni oppure la febbre, quello che non sa quando mancavano delle matite, dei pastelli, del materiale per la scuola, o fa finta di non saperlo, quello che non c’è mai la sera prima che si addormenti e nemmeno la mattina quando si sveglia. Quello che non si preoccupa se il frigo che apre la figlia è vuoto.

Quello che non sa che lei è immusonita, che deve fare l’ultimo richiamo dei vaccini, che non sempre si piace, che ama le piante grasse; lui non sa che lei non vuole essere rimandata e quindi si impegna tantissimo, non sa che ha ancora paura del buio, che l’anno prossimo vorrebbe fare tessuti aerei.

Non sa che soffre tantissimo del fatto che il padre abbia deciso di non sentire più la sorella.

Non sa niente, ma si è scaricato un’applicazione e tutte le volte che arriva un voto negativo inizia a mandargli dei messaggi.

La madre non sa a cosa serva questa forma di controllo. Non lo capisce. Non lo comprende.

Crede che non sia questo quello di cui hanno bisogno i figli.

Loro hanno bisogno di mani in pasta. Hanno bisogno di essere ascoltati. Di essere pensati. Capiti. Sognati. Cercati. Anche quando costruiscono muri.

Hanno bisogno di tempo. Di occasioni per recuperare. Hanno bisogno di presenza. Non di controllo. Quello è facile. Dura un attimo.

Non siamo madri e padri quando facciamo i cani da guardia, quando il resto è una grande bolla vuota, quando non ci siamo e diamo la colpa ad altri perché non ci siamo.

Siamo genitori nelle intercapedini, nelle fessure, nel passare dei giorni.

La figlia ha fatto quello che doveva. È andata alla riunione. Ha digerito il cinque. Ha portato felice le sue torte preparate insieme alla madre. Una al cioccolato, l’altra allo yogurt.

La sera, quando stava tornando indietro, è a lei che ha mandato un messaggio. Le ha scritto:

“Mamma, grazie per oggi!”.

La madre sa che dentro a quel grazie c’è una vita insieme. Nessun controllo. Nessuna applicazione. Solo un’abituale presenza.

Quella che serve ai figli per sentirsi amati. Voluti. Desiderati. Anche mentre crescono e si staccano piano piano da te. E ti vedono per quello che sei. E non ti adorano più incondizionatamente.

Imparano a volerti bene. E non è scontato. E non serve un’applicazione. Serve esserci.

Penny

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