L’amore tardivo e l’età che passa mi hanno regalato un tempo più cauto.

Nessuna fretta nell’ impilare azioni. La sera si va a letto presto e non mi vergogno a dirlo; il tempo della prima mattina è per la mia scrittura, lui lo sa e accoglie i miei ritmi.

Questo è il tempo del silenzio, fatto di pensieri muti. Delle camminate e delle mani che ogni tanto e s’incrociano, tra le dita due anelli fatti di fili d’erba.

È il tempo dei corpi che cambiano insieme, io guardo lui, lui guarda me ed è un sollievo che capiti ad entrambi.

Questo è il tempo della fuga dal nostro centro storico, quello che amiamo, la voglia è di uno sguardo più ampio, fuori dal quotidiano, dai figli, dalle preoccupazioni.

Ieri siamo andati alla Valle dei Mulini di Lungiaru vicino a Corvara. Due dei sette mulini erano in funzione, il primo e l’ultimo.

Nel primo ci ha accolto un vecchietto. I suoi occhi erano cisposi, la voce flebile ma decisa.

Ci ha raccontato del mulino, lo ha messo in funzione. Ogni tanto ripeteva le stesse cose, ad esempio che fino al ’53 c’è stata la miseria e si pativa la fame.

Ho pensato alla mente che trattiene certi ricordi più di altri, forse, alle fine ciò che si riesce a superare.

Quel mulino era lì da 350 anni e a me sembrava impossibile che funzionasse ancora tutto alla perfezione. Come in una fiaba a lieto fine.

Lui raccontava contento e aveva una scatolina di metallo con cui raccoglieva qualche moneta a forma di maialino con su scritto grazie.

Nell’ultimo mulino, invece, c’era un ragazzo di 14 o 15 anni di nome Daniel, il mulino era della sua famiglia ed è stata lui la nostra guida.

Ovviamente gli ho fatto un sacco di domande, così ho scoperto che va a scuola a Brunico per diventare muratore ma ogni giovedì apre il mulino. È contento di mantenerlo in vita.

Gli ho dato un fazzoletto per soffiarsi il naso perché gli colava e faceva tenerezza. La voce cavernicola e il corpo di un bambino.

Siamo tornati giù, al primo mulino, volevo sapere il nome di quel vecchietto, mi ero pentita di non averglielo chiesto, è importante sapere il nome degli altri, come una dignità, così ho aspettato che finisse le visite e gli ho chiesto come si chiamava e poi ci siamo fatti una foto.

Isidoro ha guardato il mio compagno e gli ha detto:” Grazie di avermi fatto fare una fotografia con una bella donna come lei”.

Lui non sa che i tempi della proprietà per noi donne sono finiti. Non sa che io e il mio compagno non siamo sposati, che, quando ci siamo seduti per mangiare mi ha detto: “Sono stato così bene in questi giorni”. Ed è bello sentire il bene. Viverlo più che altro.

È bello avere qualcuno che te lo dice senza reticenza.

Isidoro non sa che quando torneremo a casa, nella nostra Genova, io andrò nella mia casa e lui nella sua e anche questo ci siamo detti, che è bello avere un proprio spazio in cui tornare.

Il tempo che resta mi ha regalato una concezione dell’amore nuova, in cui non c’è bisogno di amalgamare per sentirsi vicini.

Chi lo dice che si deve vivere insieme, ad esempio, per amarsi davvero?

Il tempo che resta mi ha insegnato a salvaguardare me stessa, in primo luogo e l’altro, e a non aver bisogno di simboli come gesta d’amore.

“La valle dei Mulini è romantica” gli ho detto mentre tornavamo indietro.
“Sì, a me ha incantato”.

“Gli occhi, a volte, si abituano alle brutture ed è un peccato”.

Una cosa è certa, i luoghi senza le persone che li abitano, li curano, li trasmettono, per me perdono di significato.

Il tempo che resta è il tempo delle concessioni. Mi permetto di essere ciò che sono e lo concedo all’altro.

Ci siamo presi per mano. L’ odore del pino ci attraversava. La valle dei mulini alle spalle. Gli anelli di fili d’erba non c’erano più, ma c’eravamo noi. E la vita che resta.

Come un dono dei più belli.

Penny

foto R. Leone

PS spero vi venga voglia di andarci e di attraversare l’amore, qualunque esso sia. Ma che sia buono.

Vi abbraccio.

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