Questa settimana ho visto un film al cinema, Rosa. Sono andata alla presentazione di un libro, ad un incontro sulla sessualità. Sono uscita tre sere in una settimana e sabato mattina sono partita per Ferrara, sono andata al Festival di Internazionale.
Non c’è stato un attimo in cui io non mi sia chiesta a cosa potevo rinunciare, se fosse giusto lasciare per tre sere le ragazze.
Non c’è stato un momento in cui io mi sia dovuta convincere che potevo farlo, che potevo andare e prendermi questo tempo.
Il senso di colpa mi portava ad organizzare tutto, cucinare in anticipo, lasciare pronta ogni cosa. Ho dovuto lavorare continuamente per sconfiggere quella voce feroce.
Ho cucinato, ma ho lasciato che si gestissero, mi sono ripetuta più volte che non sono una cattiva madre se mi occupo di me, di ciò che mi interessa ed era capitato così, tre sere su cinque fuori.
E lo so che qualcuno penserà che è le mie sono masturbazioni mentali, ma ogni movimento in avanti non è scontato. Ogni movimento in avanti sembra una follia.
Penso al giudizio sulle madri che lasciano i bambini all’asilo per più tempo, magari li vanno a prendere dopo le 4:30, perché non hanno nonni o baby-sitter, perché lavorano, penso al giudizio terribile che abbiamo su di loro.
C’è, è dentro di noi.
Pensate che ieri, al Festival di Internazionale, ho ascoltato una donna svedese, raccontava la sua storia di maternità, condivisa completamente con il marito, lei ha detto: “Lo stato sociale si occupa delle cure attraverso i servizi che predispone. Io e mio marito siamo entrambi lavoratori e quindi è normale lasciare il bambino all’asilo per il tempo necessario, senza sentirmi per questo martoriata. La società si aspetta da me, come donna, che io non mi occupi solo della cura della famiglia e dal mio compagno, come uomo, si aspetta che sia un padre”.
I padri, in Svezia, hanno tre mesi di congedo obbligatorio per paternità, e i successivi 18 mesi possono essere distribuiti dalla coppia in maniera equa. Lo stato si aspetta che i padri si occupino dei figli!
In questo modo la relazione padre e figlio trova lo spazio di affezione e di cura, di certo, quelle frasi incatenanti, come la mamma non c’è nessuno, non hanno modo di esistere
Un’ economista, invece, ha spiegato che la cultura italiana, così come quella dei Paesi che sono intorno al Mediterraneo, è incentrata sulla famiglia tradizionale, quella che ci raccontiamo sempre: il Mulino Bianco, un padre e una madre, due figli, possibilmente il primo maschio leggermente più grande e il secondo femmina.
Peccato che nel nostro Paese le famiglie tradizionali siano solo il 25%. Vi rendete conto! Tutto un sistema sociale incentrato sul 25% delle famiglie, il resto, le separate, monoparentali, allargate ecc…non esistono. Questo cosa vuol dire?
Intanto che le donne, fanno meno figli, perché questo sistema che si basa sulla famiglia tradizionale e non sulla cultura dell’individuo, quindi, condanna la donna ad occuparsi della cura dei figli, della casa, degli anziani. Mancano i servizi. Manca il supporto. Manca la parità salariale. Insomma, non abbiamo nessun potere contrattuale, perché chi rinuncia al lavoro, chi si ferma a casa per i figli, sono le donne, visto che sono quelle con gli stipendi più bassi, con i lavori più precari.
Siamo costrette a conciliare continuamente tra la vita familiare e la sua gestione, il lavoro, gli interessi personali, cosa che per un uomo non accade.
Questo per dire che non siamo matte, il senso di colpa è di fatto una conseguenza dello stato sociale in cui siamo inserite. È fomentato, è mantenuto in piedi da questa cultura che non si può definire in altro modo se non patriarcale.
E allora, quello che dobbiamo fare, è continuare a lottare in primo luogo con noi stesse per dare spazio alle possibilità esterne alla famiglia, per essere sempre più consapevoli dei nostri diritti e di quello che è giusto, lottare dentro alla nostra quotidianità, allontanare quella voce feroce della colpa che ci mantiene ferme e ci fa credere che si possa essere delle buone madri solo rinunciando al resto. Non è così.
Quando fate qualcosa per voi, quando guardate un film, quando andate a teatro, quando leggete un articolo, ma anche quando andate a lavorare, quando non preparate la tavola e lasciate che siano gli altri a farlo, state costruendo qualcosa che va al di là di voi, state mettendo insieme una serie di atti che prima o poi porteranno a un cambiamento più grande, perché prima o poi questi tanti No diventeranno un’unica voce e elimineranno quella normalizzazione della colpa e del sacrificio su cui si basa il nostro stato sociale.
Ieri, mentre ascoltavo le relatrici, lo stomaco si contorceva e pensavo ai miei sensi di colpa, a quanto mi immobilizzano, a volte, a quanta fatica devo fare per allontanarli, poi, in questo grande spazio su tre piani, meraviglioso nel centro di Ferrara, mentre delle donne su una oedana parlavano di altre donne, mi sono guardata intorno, era pieno di giovani, ragazze e ragazzi.
C’erano pochissimi uomini della nostra età, ho notato che due si sono alzati poco dopo che le relatrici hanno iniziato a parlare.
C’erano le nostre ragazze i nostri ragazzi, però, e chissà che loro, alla fine, non riescano ad essere uomini e donne migliori di noi.
Però, è compito nostro preparare il terreno. Non rinunciate a voi. Siate una buona e importante eredità femminile.
Penny
E’ tutto detto cosi bene che non posso fare altro che complimentarmi con l’autrice, questa grande donna, mamma e sono sicura anche amica. Grazie delle tue belle e vere parole e che la pensi come noi tutte.
Eugenia grazie di esserci. ❤️