La verità è che non ne posso più e non vedo l’ora che la scuola finisca. Come insegnante e come madre.
Non ne posso più di dare compiti sterili. Io ordino tu esegui o meglio tua madre ti costringe ad eseguire.
Il gioco a scuola era nostro, tu ed io, faccia a faccia. Ti guardavo negli occhi e capivo.
Era nostro insieme agli altri. Chi suggeriva. Chi interveniva. Chi disturbava. Chi faceva cambiare marcia e direzione. Chi dava il ritmo.
La scuola eravamo noi.
È il meglio che si poteva fare, dice qualcuno e io mi chiedo perché non posso incontrare i miei alunni a piccoli gruppi ai giardini.
Vorrei urlare che sono “affetti” ma forse non si può, eppure è così. Se ci parlassimo e guardassimo il cielo e gli alberi e facessimo una corsetta insieme a distanza o aprissimo il quaderno sulle ginocchia e inventassimo una poesia, non sarebbe bello?
Forse le madri coglierebbero l’occasione per scappare?, è di questo che si ha paura.
Sto brava, eseguo e resisto a casa, dentro a una didattica che nessuno mi ha insegnato. Ho una striscia di dolore collocata sulla schiena, ogni tanto penso, prima o poi mi spezzerò e so che lo stanno pensando altre insegnanti come me e altre madri.
Guardo le mie figlie, il tempo davanti a un telefonino, le facce dei professori gigantesche, le loro parole che attraversano le stanze.
Rimarrà qualcosa, mi chiedo?
Anche la schiena delle mie figlie è curva, i loro occhi sbarrati sullo schermo. Una delle due non esce mai. Un po’ ho paura di quello che resterà. Intanto l’ho già capito, le conseguenze di tutto questo saranno sulle mie spalle.
“Sai cosa mi manca?” mi dice la piccola “non avere il compagno di banco”.
“È vero, è terribile” aggiunge la grande.
Sono sole, lo sanno e questa condizione è ciò che pesa di più. Anche a me come madre, anche a me come maestra. Rimaranno le lezioni di Dante e Omero, ma basteranno?
Voi madri mi scrivete, e non so cosa dire se non suggerirvi: stringete i denti ma continuate a raccontare, continuate ad arrabbiarvi e usate quella rabbia per cambiare le cose.
Mi raccontate di bambini frustrati che aspettano il loro turno per parlare e non ci riescono, magari non hanno colto l’attimo, cade la linea e piangono. Si sentono sbagliati quando tutto è sbagliato tranne loro.
Alcune di voi mi scrivono: ma davvero pensano che i bambini facciano tutto da soli?
E poi c’è una madre di un bambino disabile. Mi faccio tiglio, dice e io vorrei solo abbracciarla. Non oso immaginare la solitudine.
Ma qualcuno ci ha pensato?
Per non parlare delle famiglie in difficoltà per cui i device, ad oggi, non sono ancora arrivati.
Continuate a raccontare, altrimenti si appoggeranno sulle nostre schiene e diranno che tutto va per il meglio.
Chi c’è dentro fino al collo lo sa, sa che la speranza è che la scuola finisca presto.
Perché una madre non può litigare per far alzare i bambini, per farli vestire, fargli sentire dei vocali o vedere video per ore, una madre non può.
Un’insegnante come me non può perdere tutto ciò che sta fuori dalle discipline, tutto ciò che è respiro, costruzione del pensiero critico, conoscenza in senso ampio. Non può perdere i bambini e cofinare chi non ce la fa alle insegnanti di sostegno, se ci sono. I bambini devono stare dentro tutti.
Un figlio non può dimenticare il suo compagno di banco.
E, allora, adesso che le madri lavorano o tentano di mantenere un pezzo di lavoro, le videochiamate – che non sono mai per i piccoli in autonomia- e tutto il lavoro connesso e frontale, spesso, sono solo un grande peso.
Il che è terribile pensarlo e dirlo. Eppure è così.
Era il meglio di ciò che potevano fare?
Io credo di no. Le spalle delle donne sono stata la soluzione a portata di mano, perché nella storia sociale noi siamo questo: strumenti di cura a basso costo.
Penny