La scuola in presenza è ciò che resta per non affondare nel baratro della solitudine. È ciò che tiene ancorati i ragazzi, le ragazze, i bambini e le bambine alla normalità, al procedere della vita.
È lo sguardo rivolto avanti. Al presente. Che non sfugge.
È la parete invisibile che li sostiene in un momento di precarietà. Non importa come siano i banchi, che sia insopportabile a volte la mascherina, quel lavarsi le mani costante, ciò che conta è sapere che non sono solo.
È sapere che il futuro sta nel sorriso della mia compagna di banco. In quella battuta, quella lezione in cui qualcuno ha aggiunto un’informazione importante. In quel corpo vicino al mio che mi obbliga a stare qui e ora, a non poter fuggire.
È la mia mano che annota appunti di filosofia, si prepara nervosa per una verifica di matematica, scrive storie fantastiche di maghi e coccodrilli, prende un pennarello e fa uno scarabocchio perché ancora sono piccolo o piccola e non so disegnare.
La scuola in presenza è ciò che resta per sconfiggere la povertà o per lo meno per vederla e provare a farci qualcosa. È quel bambino o quella bambina o quel ragazzo o ragazza che torna a scuola e sta al riparo per sei otto ore quando a casa è successo l’indicibile, quando a casa, magari, non c’è il riscaldamento ma solo stanze buie affacciate su vite buie.
La scuola in presenza è ciò che resta della diversità possibile nell’uguaglianza. La storia personale conta, ci dice da dove veniamo, cosa ci portiamo dietro, di cosa abbiamo bisogno ma in classe abbiamo tutti lo stesso valore.
La scuola in presenza è ciò che resta per non abbandonare gli alunni disabili che sono una risorsa inestimabile all’interno di una classe. I ragazzi e le ragazze disabili, a un certo punto, spariscono dall’istituzione scolastica, non si capisce come mai un bambino disabile debba faticare per avere una copertura totale del suo tempo scuola, eppure sarebbe un diritto. Eppure è un bambino, una bambina, un ragazzo o una ragazza. Questo dovrebbe contare.
La scuola in presenza ci tiene ancorati alla vita, ai progetti, a prospettive di continuità.
La scuola in presenza, anche a spizzichi e bocconi, mi ricorda che io sono l’altro, che il mondo non è la mia cameretta, quello schermo a cui dedico il mio tempo. La scuola mi ricorda che l’esistenza è fatta di relazioni. Non permette il confinamento.
Perché dopo il covid, questo è il rischio, che la memoria di lavoro sia brevissima, la capacità attentiva pure, che i miei bisogni diventino la mia ossessione, che il tempo perda la consistenza dell’impegno.
Che sia più facile bivaccare che aprire un libro e provare a studiare anche qualcosa che non mi piace. Il rischio è non sapere cosa ci piace, non avere un altro adulto, oltre a mio padre e a mia madre che mi dica: dai che ce la fai. Oppure che mi strigli un po’ e mi richiami al rispetto delle regole.
Non conoscere la consistenza della fatica, la gioia del risultato. Non venire a patti con gli altri.
È un rischio non aprire la pagina del diario e non tracciare nessuna scritta colorata della mia squadra del cuore o del mio cantante preferito. È un rischio non vedere nemmeno gli occhi del compagno di banco per ricordarci che in questa battaglia ci siamo tutti e siamo insieme.
La scuola in presenza, anche a spizzichi e bocconi, è quel filo invisibile, quella corda tesa, a cui i nostri figli e le nostre figlie, di qualunque età, possono ancorarsi per non perdersi del tutto. Non confinarsi.
Percepirai ancora parte di qualcosa.
La scuola in presenza è ciò che resta di noi.
Penny
È uscito questo mio libro qui:
https://www.ragazzimondadori.it/libri/ai-figli-ci-sono-cose-da-dire-cinzia-pennati/