Ultimamente non faccio altro che sentire amiche preoccupate per figli/e chiusi in camera, bloccati su una verifica o un esame, piccole e piccoli sempre più fragili.
Mi capita di riflettere spesso sulla pandemia e su questo tempo che ha insegnato ai nostri figli che la casa, per non dire la camera, era l’unico luogo di protezione, il contatto con gli altri la zona di contagio. Il pericolo.
Di certo, questo tempo, ha contribuito all’aumento dell’ansia sociale, alla paura di affrontare il mondo; ma mi chiedo se la società competitiva in cui viviamo è vivevamo nel pre-pandemia, alla fine, non abbia fatto altro che rendere i nostri ragazzi/e terribilmente fragili.
Ragazzi/e che entrano in crisi dentro al percorso universitario, il cui tempo è un magma da cui vengono travolti, che non sanno più studiare, concentrarsi e affrontare un esame. Per cui concepire studio e impegno sociale o studio e lavoro è pressoché impossibile.
La società performante e la scuola nozionistica hanno creato nelle vite dei nostri ragazzi un corto circuito.
Le nostre aspettative e quel riempirgli vuoti e richieste, hanno fatto il resto.
E credo che le responsabilità siano da ricercare anche nelle richieste anticipate di prestazione da parte nostra, richieste che partono già dai primi anni di vita. Il corso d’inglese, il perfezionamento del nuoto, quello e quell’altro.
La paura che abbiamo per il futuro indirizza le loro scelte sia nella scelta delle scuole superiori ( liceo e se non riesci scuola privata), sia dell’Università ( con sbocco lavorativo certo e giù master che gli paghiamo fino ad età impossibili).
Insomma, non ci “accontentiamo” di sapere che stiano bene, vogliamo che “riescano” che abbiano successo, che non perdano treni, abbiamo paura e lo facciamo a fin di bene, ma in realtà li abbiamo stretti in una morsa autoreferenziale di richieste di perfezione.
E loro sono implosi; non sanno cosa e come desiderare, non sanno chi sono e cosa vogliono, sono chiusi ed estranei al mondo.
Allora dovremmo ascoltare questo malessere e fermarci; ripartire da qui.
Crescere ragazzi/e che diventeranno adulti felici, vuol dire rinunciare al controllo sulla loro esistenza, reggersi la paura del futuro e aiutarli a fare scelte consapevoli e non necessariamente di “visibilità” o successo.
Vuol dire aiutarli a “decentrarsi”, ad occuparsi degli altri, a guardare cosa succede oltre la propria stanza. Vuol dire aiutarli a fare fatica, un lavoretto, un impegno sociale, vivere delle mancanze: non puoi ottenere tutto, questa è la vita.
Nello stesso tempo dovremmo permettere strade alternative, perché, nel mondo c’è bisogno di tutti e di tutti i mestieri possibili.
Invece, noi, concepiamo la bravura dei nostri figli ( e quindi la nostra di genitori) solo se il percorso è uno: liceo, università, master…e facciamo qualsisia cosa, a volte, ci indebitiamo pure.
Ma, oggi, questo malessere, ci dice che forse non è la strada giusta, che forse quella strada non era ciò che i nostri figli desideravano anche se l’hanno scelta, così abituati ad essere performanti dalla scuola e a non deluderci.
Ho spinto mia figlia a iscriversi al servizio civile, appena gliel’ho proposto, è entrata in panico: “ Come faccio a conciliare l’università con queste 25 ore, tu sei matta, non ce la farò mai, non ho tempo…ecc…)”. Ho insistito perché si informasse. Ho insistito perché non fosse il suo mondo dilatato a fare da padrone sulla sua esistenza, perché guardasse oltre se stessa, perché si giocasse la sua partita, da sola e senza incertezze, perché capisse che la vita non può risolversi solo dentro ai nostri bisogni.
Ho paura, certo. Ma so che ci stanno chiedendo aiuto e dovremmo aiutare questi nostri ragazzi ad uscire dal guscio della performance e della protezione.
Non dovremmo spingerli costantemente alla riuscita, come se l’errore non facesse parte dell’esperienza di ognuno di noi. Dovremmo “accontentarci” della loro felicità.
Penny ♥️
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