Nella maternità la vera beatitudine, quasi per ogni donna, è poter tornare al proprio lavoro, spesso, ad un lavoro.

Perché fare figli vuol dire perdere treni, venire rimpiazzata, non assunta, retrocessa.

Anzi, ancor meglio, fare figli, spesso, vuol dire perdere identità. Per questo le giovani donne non lo considerano più un passaggio obbligato, conoscono bene il rischio e lo conosciamo anche noi che siamo le loro madri.

Sinceramente io non le biasimo.

Durante la maternità uscire di casa, smarcarsi dalla dedizione completa, vuol dire ritornare ad essere vista.

Vuol dire ritornare ad essere una persona. Riappropriarsi del proprio corpo e delle proprie aspirazioni.

La maternità, raccontata come idillio, ovunque e comunque, ha lo scopo evidente del risparmio sociale, fa comodo. Una politica che tiene più a lungo le madri a casa mantiene intatto il potere patriarcale.

Le donne non hanno bisogno di “denaro” per stare a casa ma hanno bisogno di muoversi nel mondo del lavoro, di tutele, di servizi. Hanno necessità che venga incentivata la divisone della cura, non che venga “risarcito in modo strumentale” l’aumento di cura.

A scuola ci sono molti bambini che giocano con le bambole e quando ne parlano dicono: “Giochiamo alle mamme”.

Nonostante siano maschi non “giocano ai papà” come sarebbe naturale se la cura fosse condivisa, sono madri, perché la dedizione è completamente delegata.

Questo modo edulcorato di raccontare la maternità non ha nulla a che fare con l’amore. L’amore preserva il sé, non lo annulla.

Posso amare profondamente le mie figlie ma avere il desiderio di essere vista e ho diritto di essere vista. Di non essere strumento suppletivo ai servizi di cura.

L’ultima cosa che desidero per le mie figlie è quella che vengano considerate un oggetto riproduttivo, che un giorno si voltino indietro e si chiedano chi sono e cosa ne è stato di loro rendendosi conto che sono diventate invisibili.

E questo, proprio perché le amo.

Penny ♥️

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