Ho sempre pensato che le mie incertezze dipendessero totalmente da me. Dal mio animo traballante.

In questo tempo di consapevolezza ho capito che c’è una storia più grande dentro la storia di ognuna di noi, che ci appartiene e condiziona le nostre vite.
Di fatto, non ci credono mai.

Quando non vogliamo fare una cosa, la nostra parola non basta. Quando diciamo a un uomo che non siamo più innamorati di lui, lo dobbiamo convincere. E convincere chi ci sta intorno che non siano matte, troie, egoiste.

In una conversazione, in qualsiasi posto ci troviamo, al lavoro, al bar, se un uomo chiede il silenzio solitamente lo ottiene, così, non succede per le donne. E, solitamente, ai nostri interventi seguono precisazioni maschili. Fateci caso, cè sempre qualcosa da aggiungere. Una sintesi da fare. Un riassunto. Una puntualizzazione. Una chiusura.

Spesso ho pensato di essere isterica, accalorata, rompicoglioni. Ma quante conversazioni ho dovuto affrontare alzando un po’ la voce per farmi prendere in considerazione?

Perché non basta che portiamo le prove. Siamo donne. E, a leggere la nostra Storia c’è davvero da non crederci. Perché è una storia che parla di tentativi di annullamento e di invisibilità.

Ho sempre pensato che dipendesse da me. Che la mia irrequitezza fosse colpa mia. Ci ho messo tanto a capire che il patriarcato, non è una condizione umana, è una struttura di potere con precise gerarchie.

Ci ho messo tanto a capire che, a volte, la famiglia è un reticolato in cui ci perdiamo e quella frase “I panni sporchi si lavano in casa”, ci chiede di stare zitte e permette al potere di rimanere immutato.

La nostra Storia dentro a un’altra storia, quella delle bambine che vengono sminuite quando si lamentano se un maschio le infastidisce. “Sarà innamorato di te. Lascialo perdere. Non ti preoccupare. Non farci caso”.

Non farci caso! Vi rendete conto dove le indirizziamo? A far finta di niente.

E poi, questa storia più grande continua dentro a quella delle nostre ragazze.

Chi di noi non ha mai subito un apprezzamento non desiderato su un autobus, a scuola, da un vicino di casa? Oppure è stata toccata su una coscia, sul seno, ha dovuto subire la vista di un uomo che si masturbava mentre tornava a casa?

Ricordo l’imbarazzo e la paura. Fatti piccoli, pensavo allora. Si sa, viene tramandato: è successo anche a me. È un’abitudine consolidata quella di chiederci di far finta di niente.

È accaduto alla mia piccola con un suo amico, qualche giorno fa, non voleva più vederlo, subito ho minimizzato, ma lei era così arrabbiata per dei commento sul suo seno. Persino io che sono attenta ci sono cascata. “Dai, non prendertela!”.

Conosco il ragazzino, è un bravo ragazzino, ma lei era furiosa. Ho visto i suoi occhi. “No” mi ha detto “non è giusto” e se n’è andata.

Meno male che la notte porta consiglio perché la mattina dopo le ho parlato, le ho chiesto scusa e le ho detto che ha fatto bene ad allontanarlo, che ogni volta che si sente offesa deve dirlo, esprimerlo e gridarlo. Mi è sembrata sollevata di essere stata compresa. Non si deve vergognare mai di ciò che sente.

E ancora, dobbiamo convincere che siamo madri capaci quando lasciamo i padri dei nostri figli. Dobbiamo convincere. Sempre.

Per non parlare degli stupri, l’unico delitto al mondo in cui le vittime devono dimostrare la loro innocenza e diventano le principali sospettate. Dobbiamo convincere di non aver sedotto. Roba da matti.

Ieri ho ascoltato la storia di Laura. Il suo appello disperato fuori dal Tribunale di Roma. Rischia di perdere il suo bambino. Sì, sembrava “isterica”. Si era rivolta ad un centro antiviolenza. Forse non era stata ascoltata. Quante storie esistono così?

Pur di bloccarci, siccome ci siamo stufate di lavare i panni sporchi in casa e le nostre voci si stanno unendo ( 33 Mila le donne accolte nei centri antiviolenza nel 2017), si sono inventati pure la PAS ( alienazione parentale) che non ha nessuna validità scientifica, eppure entra nei nostri tribunali a pieno titolo, viene citata, serpeggia, è tra le righe.

In questa seconda parte della mia vita ho pensato di avere qualcosa dentro di me che non andava per questo mio scaldarmi con facilità. Mi sono chiesta più volte perché non ero come tutte le altre, capace di essere più razionale, più mansuete, meno incazzate.

Poi ho capito. L’ho capito attraverso la mia storia, leggendo molto, ascoltando la storia delle femministe, frequentando un centro antiviolenza, ascoltando le vostre di storie.

Ciò che ci salva, ciò che ci permette di non annullarci, di non soccombere, di continuare a dire che il patriarcato esiste ed è un sistema collaudato di potere, per provare a smantellarlo, per non subire vessazioni, apprezzamenti sessisti, noi dobbiamo continuare a fare quella cosa lì, dare dignità a quel groviglio nello stomaco quando non ci sentiamo capite, comprese, quando ci offendono e legittimarlo.

Quel groviglio allo stomaco non è isteria, si chiama ribellione. Si chiama autoconservazione. Spirito di sopravvivenza.

Ci vogliono sole, dentro alle nostre incertezze emotive, è per questo che dobbiamo unire le forze, continuare a raccontare le nostre storie di annullamento alle ragazze, ai ragazzi e, soprattutto, dare dignità a quello che sentiamo e voce a ciò che siamo.

Donne capaci di non soccombere.

Penny

2 comments on “Le incertezze delle donne. Una storia di abitudine al silenzio dentro al patriarcato.”

  1. Verissimo! Tutto maledettamente vero! Eppure siamo ancora in poche a sentirlo davvero, a tenere duro, ad esserne convinte… molte ci provano ma poi tornano indietro, forse proprio per questo nostro meccanismo di autocensura (sto esagerando, tutto sommato non è successo nulla di grave…)… Ma, passo dopo passo, abbiano il dovere di portare questo messaggio. Comporta rinunce, sacrifici, talvolta solitudine: ma la sensazione di integrità che si prova quando ci affranchiamo da quelle logiche è impagabile.

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