Il mondo dei figli è un mondo difficile, le contraddizioni sono davvero tante e, a volte, pure le preoccupazioni.

Le mie ragazze escono regolarmente, anzi, direi che quest’estate hanno dato il massimo in quanto a uscite. Potrei aggiungere, grazie al cielo, perché la nostra situazione in casa è allucinante: finestre sprangate per lavori alla facciata.

Quindi, stiamo tutte e tre in una sola stanza e in quella stanza si fa tutto e mentre loro litigano, mangiamo, si cambiano, guardano la Casa di Carta a volume altissimo, io provo a scrivere e le infastidisco pure.

Comunque, al giorno d’oggi, le relazioni tra le adolescenti non mi sembrano un fatto semplicissimo.

Innanzitutto, se ti piace qualcuno, il primo approccio, spesso, avviene su Instagram; le mie, essendo femmine, hanno ancora quell’idea antica di dover essere cercate.

“Ma se ti piace non puoi seguirlo tu?” ho chiesto alla girl.
“Ma sei fuori! Deve essere lui” mi ha risposto guardandomi come fossi matta.

Così nessun approccio. Nessun occhi negli occhi. Nessun tentativo. Mi prendo un due di picche ( chi di noi non se l’è preso) me lo porto a casa, mi fa male, cazzo, ma mi fa crescere. E pure tanto.

Tutto mediato dallo schermo, della serie non ci metto la faccia, non provo, vado solo sul sicuro maschio o femmina. E, questo, per la capacità di gestire le relazioni future, e le relative frustrazioni se vengo lasciato, se le cose non funzionano, mi sembra un grande guaio.

Comunque, la piccola ha un amico che sta parecchio in casa, io conosco la mamma, è una persona che mi piace molto e ci siamo parlate, così, ho detto alla girl: “Inseriscilo nel gruppo ( whatsapp) e cercate di coinvolgerlo un po’, secondo me basta un via”.

Ha preso coraggio ( tra i ragazzi vi giuro sembra tutto complicato) e gli ha scritto, invitandolo con gli altri a prendere un gelato”.

“Grazie” le ho detto “se tu fossi sola, o fossi timida, io vorrei questo per te perché, a volte, la timidezza o la chiusura fregano e non è proprio una società facile questa”.

“Lo so” mi ha detto lei.

La girl piccola è davvero una ragazza responsabile, alle elementari aveva un sacco di problemi, disortografica, sbagliava i nomi, non azzeccava il verbo avere nemmeno a morire, confondeva le lettere, insicura e incerta.

Alle medie le cose sono migliorate ma la percezione di sé non è mai stata il massimo. Nessun liceo classico per lei. Nessuna aspirazione alta. Chiusa da matti.

Ha fatto la prima superiore terrorizzata di non riuscire. Invece, non ho mai dovuto aiutarla, nemmeno una volta, ha fatto la rappresentante di classe, ha sempre preso voti buoni e ha iniziato ad aspirare per se stessa un futuro all’università.

A volte, i figli sanno meravigliarci.

Così, siccome la girl grande prende abbastanza spazio, dopo la nostra conversazione, mi sono messa lì e le ho detto quello che pensavo di lei, ovvero, che è una ragazzina in gamba, che si fa carico degli altri, attenta e mentre le parlavo lei si è messa a piangere.
“Perché piangi?” le ho chiesto.
“Perché sistemo sempre le cose dei miei amici, ma io non so sistemare le mie”.

Sapevo a cosa si riferiva, così, l’ho abbracciata; ci sono due amiche a cui vuole bene che hanno un rapporto piuttosto esclusivo e lei ci soffre.

“Devi dirglielo” le ho detto.
“Ma va! sembro una bambina piccola”.
“Se qualcosa ti fa soffrire devi parlarne, se le cose non cambieranno, pazienza, ma quello che provi è importante ed è importante che tu lo riconosca”.

Io ho iniziato così, a tenere dentro, pensando che i miei fossero pensieri stupidi.

Il riconoscimento al proprio valore va educato.

Non è fondamentale ciò che riusciremo a fare, nelle relazioni si è in due e le variabili sono molte, quanto determinare il proprio valore.

Quello che sento è importante. Non mi importa se non mi crederai, se non funzionerà, se mi giudicherai: questa sono io, questo è il mio pensiero.

È così che si evita il rischio all’invisibilità.

Il rischio di ingoiare sofferenza credendo che le cose cambieranno se mi comporterò bene, se non dirò niente, se sarò più accondiscendente.

È un’educazione a essere visibili, a correre il rischio, a saper reggersi il conflitto e il giudizio.

Invece, a volte, minimizziamo, lo facciamo nella nostra vita e in quella dei nostri figli.

E poi, quel sentire non espresso, non riconosciuto diventa una montagna impossibile da scalare.

Si è asciugata le lacrime, non so se l’ho convinta, ma io non demordo, so che i figli hanno bisogno del nostro impegno.

Hanno bisogno, soprattutto, di esempio.

Ci guardano se sviamo il conflitto, se soffochiamo i sentimenti, se non affrontiamo e imparano.

Così mi sforzo, per me e per loro, di ascoltare il mio cuore se è ferito, se soffre, se è offeso. Mi vedono piangere, a volte. E se sono triste oppure ho paura, glielo dico, intanto lo sanno già.

La speranza è che imparino ad ascoltarsi e non a celare la verità.

In poche parole che siano visibili a loro stesse, e non facciano come me, che ci ho messo una vita per riuscire a guardarmi davvero.

Penny

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