Immaginatevi una giornata qualunque. Ti svegli la mattina, infili bene la maglietta dentro i pantaloncini dei tuoi figli e chiudi le giacche, non vuoi che si prendano freddo. Se sei fortunata li accompagni a scuola, altrimenti li porti con te e aspetti l’autobus.

È un mercoledì o un giovedì, poco importa. Sei nel centro di una grande città. Scendi dall’autobus e corri verso la metro tirandoti dietro il tuo bambino, quello sfortunato, che rimane con te quel giorno.

Sali sulla metro, sei schiacciata come una sardina, il tuo piccolo si lamenta, non fa che picchiettarti sulla giacca e dire: “Mamma, mamma, voglio sedermi!”. “Non si può amore” gli rispondi e gli accarezzi la testa.

Hai gli occhi vuoti, le spalle curve, un livido, forse due, oppure nessuno. Alcune cicatrici sono invisibili. Ma non importa, non senti più niente, tutto è normale.

Ti guardi intorno, vedi solo donne. Ti assomigliano. Qualcuna ha un paio di bambini con sé e altre sono sole. Si tengono dove possono.

Anche loro hanno gli sguardi vuoti, tu lo sai, sono come i tuoi. Alcune scendono, altre salgono, in uno scambio continuo. La mia vita come la tua. Una famiglia normale. Un uomo normale che dice di amarti.

Ed lì che succede, quando le porte si chiudono. Un uomo, forse due, forse 68, in silenzio, hanno messo una bomba, hanno intrecciato i fili. Premuto il detonatore.

68 persone sono morte. Tutte insieme. Un giorno qualunque.

Il nostro Paese si sarebbe fermato.
Una strage. Direbbero.
Tuonerebbe ogni radio, ogni telegiornale, ogni politico.

I giornalisti farebbero una cronaca giusta. Sceglierebbero le parole con cura. Attenti a non ferire nessuno.

Sarebbero parole forti, perfette, di condanna per quei 68 uomini.

Metteteli in galera e buttate la chiave. Griderebbero all’unisono. Ovazione del popolo.

Nessuno direbbe: avevano dei problemi in famiglia. Nessuno lo tratterebbe come un fatto privato. Non ci penserebbero a giustificare il gesto. Erano depressi. Avevano perso il lavoro.

Li chiamerebbero con il loro nome: assassini. Li condannerebbero e basta.

68 persone.
Pelle trafitta, più e più volte. Squarciata. Pezzi di qua e di là.

Hanno trovato un cuore, non sanno di chi sia.

Cameriera, lascia due figli.
Insegnante, lascia un figlio adolescente.
Casalinga, una figlia è morta con lei.
Informatica, lascia tre figli.
Dottoressa incinta di sei mesi, era una bambina: morte entrambe. E così via fino ad arrivare a sessantotto donne.

Una mattanza. Le bocche sarebbero aperte, bloccate, sconcertate.

Invece niente.

Sessantotto donne, sette donne ogni mese. Due donne alla settimana e nessun programma televisivo di quelli che dovrebbero fare informazione seria, nessun politico si ferma per dire: questa è una strage.

Niente, si va avanti. Abituati alla morte delle donne. Come se fosse normale che ogni tanto ne perdessimo una.

Il cecchino ha sparato a caso.

Io ci penso. Vorrei scrivere di tutte, ma non riesco a stare al passo.

Però, non mi arrendo. Non rinuncio. Non voglio dimenticare quelle sessantotto donne, perché ogni anno resettiamo. Ed è terribile.

Si ricomincia a contare, il resto è gia dimenticato.

Non smettiamo di fare rumore. Non abituiamoci alle loro morti e alle morti dei figli che erano con loro, mentre la nostra vita continua.

Almeno noi.

Sessantotto donne è una strage.

E, per Dio, non comportiamoci da minoranza, anche se il patriarcato e gli uomini che ne fanno parte, ci trattano come tale.

Noi siamo l’altra metà. Ci è ben chiaro?

Facciamo sentire il nostro peso in casa, nei luoghi di lavoro, ovunque.

E lottiamo per queste donne, che sono come noi e come noi chiedevano sono di essere libere.

Penny

PS: e mentre scrivo ne è morta un’altra.

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