Lei si mette la sveglia, non perde nemmeno un minuto di sonno. Si lava la faccia, entra in cucina con il cappuccio della felpa tirata su e si posiziona davanti allo schermo pronta per la lezione.
Il più delle volte oscura la telecamera, non vuole farsi vedere. Si vergogna, credo. Non è come decidere la sera prima cosa indossare per il giorno dopo, metterlo sulla sedia ed essere pronta, più o meno, per affrontare i tuoi pari.
Qui, è tutta un’altra faccenda. Le giornate scorrono in una sorta di trascinamento fisico ed emotivo e per lo più si sta in tuta, al massimo un paio di jeans.
“Mamma, inizio adesso la lezione, parla piano”. Un po’ difficile quando stai lavorando a un altro computer con colleghe e alunni, ma ci provo anche se siamo arrivate ad un pelo dalla rissa.
Un giorno a tavola ci siamo dette: “Dobbiamo sopravvivere, cerchiamo di essere tolleranti una con l’altra”. Insomma, ci stiamo provando, alcune volte ci riusciamo di più, altre meno.
Abbiamo tre stanze e ce le giochiamo a dadi. Solitamente a me tocca la cucina, la piccola nello spazio più piccolo, la maturanda finisce in camera mia.
La scrivania è vicina ad una finestra, e dato che ormai è la sua postazione per quasi tutta la giornata, le ho chiesto se voleva che mettessi delle tendine. Mi ha risposto: “Lasciami gli alberi”.
E io la capisco. Capisco che voglia gli alberi.
All’ora di pranzo solitamente è collegata, difficilmente mangia con noi.
Ha pure preso una nota per non aver consegnato un compito d’inglese “troppe cose nella testa” mi ha detto dispiaciuta.
Ogni tanto parla con me e sua sorella, per lo più è china sulla scrivania, prende appunti, guarda schermi e professori, alcuni di loro sono in difficoltà, lo vede, lo sente. A volte prova tenerezza, altre è arrabbiata.
Nonostante ciò, va avanti, ammalata di incertezze.
Non mi domanda nemmeno più quando finirà, è rassegnata, di quella rassegnazione che fa paura ad una madre. Non esce. Mette il muso fuori dalla finestra, ogni tanto, la sera, per fumarsi una sigaretta. In casa sa che non lo può fare.
Ieri, a cena, era scoraggiata. “Chi l’avrebbe detto che la maturità sarebbe stata così, senza amici, senza vedere i miei compagni, senza poter studiare insieme da qualche parte, sì, lo so, la gente sta male, però è triste lo stesso”.
Ogni tanto la sento ridere di gusto con qualche amica. Il sabato sera si collega con un gruppo di ragazzi e ragazze e fanno un gioco organizzato da due di loro.
Per sabato prossimo ha dovuto cercare due fotografie, una mia, una di suo padre. Sono buffi. Il sabato è l’unica sera in cui si prepara.
La guardo come se fosse in un acquario, la sua esistenza è stata privata di quello spazio sociale così importante per la formazione dell’identità.
La scuola garantisce oltre all’istruzione, quell’aspetto che spesso sottovalutiamo e che riguarda l’acquisizione di comportamenti sociali giusti, la crescita in mezzo agli altri, con gli altri.
Acquisizioni che ci servono per il nostro futuro di cittadini e di persone. Questo manca e non so perché nessuno ne parli mai, come se solo le materie e i voti avessero valore, ma non è così.
Mi sarebbero piaciute delle parole importanti, serie, per questi ragazzi, loro le avrebbero ascoltate, così come hanno dato dimostrazione di essere meno sdraiati di quanto li abbiamo sempre descritti.
Scalpitano, eppure nessuno li vede fuori. Mi sembra non succeda così tra gli adulti, non con tutti per lo meno.
“Nella tua vita avrai molti motivi per essere felice uno di questi si chiama acqua, un altro ancora si chiama vento, un altro ancora si chiama sole e arriva sempre come una ricompensa dopo la pioggia.”
Lo scrive Luis Sepúlveda in quel libro meraviglioso “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”.
Tengo ferma questa frase e guardo oltre, oltre quella schiena curva, quelle apnee, quegli occhi stretti per allargare appunti e immagini.
Non posso fare altro come madre, ricordarle che avrà molti motivi per essere felice nella sua vita e, insieme, stiamo aspettando che cessi la pioggia.
Penny