Ho letto questa storia stamattina in un articolo di Selvaggia Lucarelli. Quella di un ragazzo di quasi 18 anni, quasi la stessa età di mia figlia. Una vita come quella di tanti altri: una bella famiglia, un liceo, degli amici, l’amore per il basso.
A quanto pare era sempre andato bene a scuola, negli ultimi 15 giorni di didattica a distanza però, qualcosa si era inceppato, non si era più collegato i professori e loro avevano avvertito la famiglia. Poi, un brutto voto dopo un interrogazione.
Nella notte tra il 19 e il 20 maggio ha appeso una corda alla trave della sua camera e alle 2:30 di notte si è impiccato. È stato il fratellino, che dormiva con lui, a trovarlo e a dare l’allarme ma era troppo tardi. Il ragazzo non ce l’ha fatta.
È sempre troppo tardi quando muore un ragazzo, troppo tardi quello che facciamo per lui. Sì, perché, soprattutto ai nostri ragazzi non insegniamo fin da piccoli la fragilità.
Non insegniamo che è possibile perdersi, non insegniamo che loro non sono i voti che prendono o le prestazioni che portano. Siamo una società competitiva, una scuola competitiva con o senza DAD, che decliniamo con serietà la meritocrazia, siamo una società che corre e che spinge i suoi ragazzi a non rimanere indietro in questa corsa. Siamo una società di sconfitti e vincenti, senza terra di mezzo.
Siamo la società in cui “deve andare tutto bene”, il cui “mostrare” è diventato un mestiere, basti pensare a ciò che gli adulti fanno girare di sé stessi su Facebook.
Siamo una società che non parla con i ragazzi di sessualità, di emotività, di sentimenti e li considera ancora dei tabù. I panni sporchi si lavano in casa e quelli puliti si mostrano e se non ci sono panni da mostrare che si fa?
Siamo la società del silenzio dove nella scuola è più importante studiare pagine e pagine a memoria che chiedersi: allora, come stai?
Non c’è lo spazio emotivo perché i ragazzi possano conversare con degli adulti educanti ( i professori o professoresse, psicologi o psicologhe…) per un’ora di tematiche che vadano oltre le tradizionali discipline.
Sarebbe bello infilare nelle scuole una un’ora di conversazione: di cosa volete parlare oggi? Quante cose potremmo imparare di loro? Quanto sapremmo che non sappiamo? Quanto potremmo fare?
Un adolescente che sta male è uno specchio per la società intera, ci dice che quella malattia ci riguarda, ce la sbatte in faccia, per questo forse non la vogliamo vedere.
Possiamo cercare le colpe all’interno delle famiglie ma il problema non è individuale e non è soggettivo, è un problema ambientale il nostro, sociale.
A quanto pare a togliersi la vita sono soprattutto i maschi, quindi, eccolo che ritorna il problema legato alle tematiche di genere, non solo per le bambine e le ragazze, ma anche per i bambini e i ragazzi, il racconto di una mascolinità fuorviante: devi essere forte, coraggioso, tutto d’un pezzo.
E se non lo sei? Cosa succede?
Noi siamo la società che in questi tempi di pandemia, con i sistemi sanitari e scolastici in bilico, rimaniamo nella “top 5” Europea per la spesa militare con 26,8 miliardi ( dati dal rapporto del Sipri).
Siamo quelli che investono solo il 7,9% della spesa pubblica in educazione, un dato inferiore a quello di tutti gli altri Stati europei.
E, allora, la morte dei nostri ragazzi sta anche dentro a questi dati ed è arrivato il momento di fare pressione, affinché il governo e quelli che si susseguiranno, spendano di più per sanità, istruzione, reti di protezione sociale e meno per le armi.
E quando andremo a votare, dovremmo spingere i politici a parlarci di cosa faranno per la scuola, la sanità e i servizi alla persona. Dobbiamo essere presenti e pressanti.
Richiedere una giusta Protezione sociale. Dentro ci sta la storia di un ragazzo che una notte di maggio ha deciso di sbatterci in faccia la nostra inadeguatezza, i nostri errori, le scelte che non siamo stati in grado di fare.
La morte di M. Deve diventare un “nostro” problema.
Che la sua perdita non sia vana.
Penny
❤️