Chi segue la pagina fb sa che questi sono giorni in po’ tormentati. “Ho la tristite” ho detto al mio compagno e poi alle mie figlie. Non saprei definirla in nessun altro modo.

Non c’è nulla di diverso da prima e nulla di particolarmente doloroso che mi sia accaduto. Eppure qualcosa chiede di essere ascoltato.

Generalmente quando mi sento così cerco di fermarmi, farmi domande aiuta, anche se non ci sono risposte, perché, a volte, non ci sono.

Naturale aderenza alla vita.

Si può stare male senza apparenti motivi? Oppure la tristezza è quel sentimento da demonizzare sempre? Da analizzare perché venga sconfitta al più presto e ci superi veloci?

E se ci concedessimo il malessere cosa succederebbe? Cambierebbe l’immagine che diamo di noi? Le aspettative?

Esiste un dolore che non ha nulla a che fare con la malattia evidente ma che credo appartenga molti di noi.

Il malessere, ad ogni modo, deve passare in fretta, dà fastidio, fa da specchio. È zecca.

“Cosa avrai mai da lamentarti?”

Non lo so, a volte non so nulla di questo dolore, se non che arriva e mi chiede attenzione.

E ciò che mi opprime non è tanto il dolore di per sé ma il dover rappresentare una parte. “Tutto bene, come al solito”.

Dobbiamo per forza essere felici? E se la felicità avesse bisogno della tristezza per palesarsi? Per essere riconosciuta?

Sono triste e non so il perché e non mi interessa indagare con ossessione.

Ho scoperto che la tristezza mi aiuta a dire dei No, che li legittima e delimita i miei confini: arrivo fino qui, il resto è altro da me e non mi può inghiottire come un tempo.

Non ce la faccio, mi spiace, ma nemmeno tanto.

Certo questo presuppone accettare la perdita. Perdere delle cose, situazioni, eventi, l’immagine di noi stessi -pensate solo al quotidiano, a chi frequentate, all’ambiente di lavoro- perdere terreno.

Non esserci ovunque e non arrivare sempre.

Cosa succede quando molliamo la presa? Niente. Il mondo continua a girare anche senza di noi.

Forse è questo che ci terrorizza quando ci fermiamo, vedere come molto di ciò che facciamo sia accessorio, come noi stessi siamo per lo più irrilevanti dentro al fluire dell’esistenza.

È vero, è terrorizzante ma se ci pensate un attimo è anche un sollievo: ci costringe a scegliere. Crea indipendenza dal futile, libertà dalle competizioni e dalla paura di non fare mai abbastanza, di non essere mai abbastanza.

A volte anche il matrimonio, primo, secondo, terzo, mi sembra una competizione, ma magari mi sbaglio. Pure l’amore sembra un gareggiare alla meraviglia.

Sono triste e non c’è un perché. Quando lo dico anche le mie figlie sembrano sollevate, raccontare la mia tristezza permette la loro senza spavento.

Aderire alla nostra esistenza vuol dire farsi carico della propria tristezza, come dei lutti, del dolore. Accettarli e, soprattutto, non nasconderli. Nemmeno qui, nel luogo del mostrare.

Se potessi vi sussurrerei una poesia di Patrizia Cavalli.

“Ma per favore con leggerezza
Raccontami ogni cosa
Anche la tua tristezza”.

Lei aderisce a noi e noi all’esistenza, quella autentica.

Penny ♥️

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