Un profeta ma di quelli proprio profetizzanti dice che ci basta essere madri sufficientemente buone. E non solo, dice persino che abbiamo buone ragioni per detestare i nostri figli.

Il che mi sembra un’intuizione meravigliosa. Primo perché a dirlo è stato un uomo nato alla fine dell’800 e secondo perché tutte le volte che mi sento affaticata, appesantita, maltrattata e m’incazzo con loro, posso non sentirmi in colpa.

E dirmi che un profeta di nome Winnicott mi autorizza a detestarli, ogni tanto i figli.

Diciamoci la verità, a noi madri essere sufficientemente buone non ci basta, invece dovremmo farcelo bastare.

Potrei essere una madre sufficientemente brava a cucinare, ad esempio ( comprare in rosticceria credo che ci rientri in pieno).

Sufficientemente brava a non urlare ( qualche parolaccia ogni tanto, di quelle che ti fanno stare bene e chiudono lì la litigata. Che ci sono cose che non si possono esprimere in un altro modo, tipo quando ti prendono il tuo vestito preferito e poi lo ritrovi accartocciato nei loro cassetti).

Sufficientemente brava a non perdere le staffe (che neanche se fossimo Maria Teresa di Calcutta potremmo resistere a certe provocazioni dei nostri figli come: Ma’ ci sei o ci fai?).

In fondo quel sufficientemente è un sei e forse  potremmo starci dentro abbastanza comode.

Lui dice che il vero pericolo è quello di non conoscere i propri limiti e lì, direi che non abbiamo problemi. Non c’è cosa come la maternità che ci mette continuamente di fronte a quello che non siamo.

Dice che dobbiamo separarci dai nostri figli, e che ce lo dica lui è sorprendente perché, a volte, ho la sensazione che agli altri, gli uomini del nostro tempo, faccia comodo vederci tuttemadri, un bel agglomerato per tenerci occupate.

Invece lui insiste e dice che dobbiamo separarci da quell’idea di fusione che c’è all’inizio, e che noi madri conosciamo bene quando ci mettono quel microbo tra le braccia. Sappiamo  di cosa sta parlando, perché quando i figli li abbiamo in pancia siamo uno. Non due. Ma Uno.

Con nessun altro essere ci fondiamo in questo modo e ci sentiamo piene, felici e onnipotenti. E pensiamo che il mondo finisca con loro, lì, insieme a noi.

Parla di circolarità dinamica e costruttiva. Che non so bene cosa voglia dire ma lo immagino. Siamo trottole noi madri. Dinamiche sicuro, costruttive non sempre, che a volte distruggiamo e lo facciamo in fretta.

Dice un sacco di cose questo Winnicott e mi sembra che un po’ ci sollevi, il che non è così comune, visto che la colpa è sempre nostra.

Parla di accettazione e di sicurezza, due qualità che ci mancano. Perché se c’è una cosa che sappiamo fare bene noi madri è quella di condannarci. Sempre. E non considerarci mai sufficientemente buone, appunto. Ma perennemente inadeguate.

E poi scrive una cosa che faccio mia e vorrei ce la attaccassimo sul frigorifero e l’avessimo ben presente ogni attimo della nostra esperienza di madri. Sotto al cuscino. Nelle scarpe mentre attraversiamo di corsa i giorni. Quando non sappiamo se stiamo facendo la cosa giusta. Cioè sempre.

Perché vi conosco ormai e so come vi sentite. Esattamente come me. Incerte.

Lui dice questo. Dice che amare non è una questione d’istinto, e non siamo madri cattive a prescindere, se, a volte, non ci riesce bene. Amare è una faccenda complicata. E gli errori sono parte integrante di questa faccenda.

In fondo noi di faccende ne sbrighiamo tante. Ma, alla fine, questa è quella che ci resta più difficile. Quella con cui lottiamo una vita. In cui non possiamo essere sostituite. A cui non possiamo sottrarci. Essere madri.

Dovremmo aggiungere: che provano a volersi bene.

Almeno sufficientemente.

Penny

 

 

 

 

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